La “sinistra sindacale”: un soggetto storico, un concetto politico e una categoria storiografica - di Fabrizio Loreto

La “sinistra sindacale” - come soggetto storico - compare in Italia negli anni sessanta del Novecento, per diventare nel giro di breve tempo, tra il ‘68 e i primi anni settanta, l’artefice indiscussa del periodo più florido di protagonismo sindacale nella storia del paese. Nello stesso periodo essa entra - come concetto politico - nel discorso pubblico, alimentando un ricco confronto dove s’intrecciano diverse posizioni, comprese tra gli estremi dell’esaltazione e della denigrazione. Infine, bisognerà attendere circa tre decenni, fino ai primi anni Duemila, perché essa entri stabilmente nel dibattito tra gli studiosi, come categoria di interpretazione storiografica.

Già prima del Sessantotto, ovviamente, nella lunga storia dei lavoratori e delle loro rappresentanze sociali e politiche, non erano mancate aree, correnti ed esperienze collettive che si erano collocate stabilmente su posizioni di “sinistra” all’interno delle organizzazioni sindacali. Basti pensare alla vicenda del sindacalismo rivoluzionario, durante l’epoca giolittiana, caratterizzata da un marcato “pansindacalismo”, fondato sull’autosufficienza dell’organizzazione operaia come unico soggetto in grado di fare la rivoluzione, attraverso la diffusione sempre più ampia e capillare dello sciopero generale; l’esperienza “sindacalista”, peraltro, sarebbe stata oggetto di analisi e di riflessione proprio in taluni ambienti della sinistra sindacale, sul finire degli anni sessanta, con l’obiettivo di rivalutare quella vicenda, sottraendola all’oblio in cui era finita a causa dei legami che molti sindacalisti rivoluzionari avevano stretto, in seguito, con il fascismo. Oppure, tra le realtà di “sinistra”, si pensi all’esperienza della corrente comunista, sorta nell’ambito del socialismo rivoluzionario dopo l’Ottobre del 1917, protagonista del “biennio rosso”, cioè di quella stagione straordinaria di intensa conflittualità sociale che si era accesa, non solo in Italia, nel primo dopoguerra; a tale proposito, tuttavia, occorre precisare che la famosa direttiva leninista sulla “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato sarebbe stata respinta con decisione, negli anni sessanta e settanta, dagli animatori e protagonisti della sinistra sindacale.

Nella prima fase dell’Italia repubblicana, duramente condizionata dalle logiche politiche della guerra fredda, dalle necessità economiche della Ricostruzione e dal trauma delle scissioni sindacali del 1948-1950, il campo della sinistra venne saldamente presidiato dalla Cgil, diretta dalla componente maggioritaria dei comunisti, in stretta alleanza con la minoranza socialista. La stessa figura “anomala” di Giuseppe Di Vittorio, leader comunista cresciuto nelle file del sindacalismo rivoluzionario e, nello stesso tempo, tra gli artefici principali del patto costituzionale alla base del nuovo ordinamento democratico, era il simbolo di una autorevolezza sindacale che impediva, di fatto, la formazione di aree importanti di dissenso radicale nei confronti delle Confederazioni e, in particolare, della Cgil.

Gli scenari economici e politici - com’è noto - cambiarono in modo profondo tra gli anni cinquanta e sessanta. Da un lato, infatti, il boom favorì l’affermazione di una società industriale compiutamente fordista, segnata - in termini positivi - dalla “piena occupazione” e - in termini negativi - dalla diffusione su larga scala dei metodi tayloristici di produzione, che innescarono il netto peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, a danno della salute operaia. Da un altro lato, a livello politico, la crisi definitiva del centrismo, la vicenda drammatica del Governo Tambroni e l’avvento del centrosinistra finirono per allentare le tensioni tra i partiti e nelle istituzioni, favorendo in modo evidente la ripresa sindacale. Eppure, nonostante tali condizioni di favore, sia economiche che politiche, alla vigilia del ‘68 il clima sociale e sindacale appariva in fibrillazione.

Fu proprio in quel periodo, nel cuore degli anni sessanta, che prese a formarsi la sinistra sindacale: un’area trasversale alle tre Confederazioni “storiche” (Cgil, Cisl, Uil), ma presente soprattutto nelle categorie industriali di Cgil e Cisl (in primis tra i metalmeccanici), che sosteneva proposte di mutamento radicale tanto sul piano organizzativo che rivendicativo. Nata nelle zone più industrializzate del paese, specie nelle regioni del Nord-Ovest, lungo l’asse tra Milano e Torino, dove era maggiormente diffusa e radicata la grande fabbrica fordista, la sinistra sindacale iniziò presto ad accrescere i consensi anche nei grandi poli industriali della “Terza Italia”, dal Veneto alla Toscana, passando per l’Emilia “rossa”, per radicarsi infine anche in alcuni territori del Meridione, soprattutto nell’area metropolitana di Napoli. 

Sul piano politico la sinistra sindacale nasceva da tre fonti principali: dalla sinistra socialista, che aveva ricevuto nuova linfa vitale dalla costituzione del Psiup; dal cosiddetto “dissenso cattolico”, cresciuto all’ombra del papato di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II; e dalla sinistra comunista, venuta allo scoperto dopo la morte di Palmiro Togliatti. In ambito socialista, la componente più dinamica era certamente quella dei “bassiani”, in particolare di quei giovani dirigenti sindacali che presero le redini di una piccola ma importante rivista come “Problemi del socialismo”. In ambito cattolico, la realtà più originale fu costituita senza dubbio da alcune federazioni locali della Fim-Cisl, specie nell’area lombarda, a partire da quella milanese, anch’essa artefice di una rivista altrettanto innovativa e radicale come “Dibattito sindacale”. In ambito comunista, infine, fu l’ala

“ingraiana”, duramente contrapposta alla corrente “amendoliana”, ad alimentare e sostenere quei giovani dirigenti sindacali della Cgil che, soprattutto dentro la Fiom ma anche in altre federazioni industriali, spingevano per mutare in modo significativo la linea tradizionale, impersonata al massimo livello dal Segretario generale Agostino Novella.

Il Sessantotto fu la molla decisiva che innescò il cambiamento. Di fronte a quel vasto movimento di contestazione radicale di ogni forma di autoritarismo - nelle scuole e nelle università, nella politica e nelle istituzioni, nelle fabbriche e nella società - la sinistra sindacale decise di fare proprie alcune “parole d’ordine” di quella generazione così irriverente e sorprendente. Così, da piccola realtà all’interno di grandi organizzazioni di massa, essa compì il suo “assalto al cielo”, convinta di essere certamente minoritaria nelle Confederazioni, ma maggioritaria nel movimento; e, in pochi mesi, riuscì a conquistare l’egemonia culturale nel sindacato e la direzione politica del vasto movimento di lotte operaie e sociali.

I pilastri su cui si basava la riflessione teorica e l’azione pratica della sinistra sindacale furono tre. Innanzitutto la democrazia: non più una semplice democrazia rappresentativa, fondata sul meccanismo della delega ai rappresentanti; ma neanche la scorciatoia della democrazia diretta, di cui si conoscevano bene le derive plebiscitarie e leaderistiche (oggi diremmo populiste); e neanche una democrazia soltanto partecipativa, fondata cioè sulla sola partecipazione dei lavoratori attraverso assemblee, consultazioni e referendum. Occorreva, invece, una decisa svolta verso una democrazia “deliberativa”, in cui la partecipazione della base doveva prevedere lo sbocco finale di decisioni che spettavano sempre e comunque all’insieme dei lavoratori, compresi i non iscritti ai sindacati. Il simbolo per eccellenza di tale “rivoluzione copernicana” fu il delegato, conquistato nelle principali fabbriche tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969. Uno dei momenti fondativi fu certamente la grande consultazione dei metalmeccanici, avvenuta nella primavera-estate del 1969, per il varo della piattaforma contrattuale. L’apice culminante, infine, fu l’Autunno caldo, quando, durante una stagione di conflitti e scioperi senza eguali, i delegati si diffusero a macchia d’olio e si riunirono nei primi Consigli di fabbrica, conquistando un contratto anch’esso senza precedenti, caratterizzato da novità economiche e giuridiche molto rilevanti. La sanzione arrivò qualche settimana dopo, nel marzo 1970, durante la prima Conferenza dei delegati metalmeccanici, svoltasi a Genova, quando si costituì di fatto il “sindacato dei Consigli”.

Il secondo pilastro della sinistra sindacale fu l’autonomia: non soltanto l’autonomia dai padroni e dai governi, ovviamente, ma anche dai partiti, il cui ruolo era naturalmente differente da quello svolto dal sindacato, il quale non poteva sottostare alle direttive altrui. Anche in questo caso ci fu un avvenimento simbolico di cesura: il congresso nazionale della Cgil, tenuto a Livorno nel giugno 1969, quando furono varate le cosiddette “incompatibilità” tra incarichi sindacali e politici, innescando forti polemiche e dibattiti accessi soprattutto in casa comunista. Tuttavia, l’incompatibilità non poteva esaurire il problema dell’autonomia. Infatti, per affermarsi come un vero e proprio soggetto politico, il movimento sindacale doveva essere capace di elaborare un suo progetto autonomo, con cui provare a trasformare in senso radicale la società e le istituzioni. Un’autonomia, dunque, “programmatica”, basata cioè sulla centralità di un programma politico concepito e promosso dal sindacato.

Infine, il terzo pilastro: l’unità. Anche in questo caso, però, non ci si poteva accontentare di soluzioni parziali, che ad esempio si limitassero a favorire azioni comuni tra le categorie oppure a rafforzare i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil sommando uffici, risorse e gruppi dirigenti. L’obiettivo era un altro, e decisamente più ambizioso: l’unità “organica”, cioè la fondazione di una nuova Confederazione dei lavoratori che ponesse fine, una volta per tutte, alle divisioni ideologiche fra le tre sigle storiche del sindacalismo confederale. Se i delegati, nei luoghi di lavoro, venivano eletti da tutti i lavoratori e su scheda “bianca”, senza dunque la presenza di liste confederali, allora anche ai vertici del sindacato, nei gruppi dirigenti, si poteva e si doveva procedere a un rimescolamento generale di incarichi, ruoli e funzioni, per diventare finalmente un solo soggetto: più democratico, più autonomo e più unitario.

Questa, in sintesi, fu la cultura della sinistra sindacale, cresciuta negli anni sessanta, impostasi come protagonista già nel ’68, divenuta egemone con l’Autunno caldo e capace di competere negli anni settanta per assumere la guida delle Confederazioni. Ma quando si verificò la sconfitta della sinistra sindacale? Su tale questione le interpretazioni degli storici divergono. C’è chi parla dei primi mesi del 1970, quando non si riuscì a imporre fino in fondo la svolta radicale, sull’onda dell’entusiasmo provocato dall’Autunno caldo; e c’è chi, all’estremo opposto, colloca la data periodizzante nell’autunno del 1980, ai tempi della sconfitta “storica” alla Fiat di Torino con la “marcia dei quarantamila”. A mio avviso, invece, occorre collocare la fine di quella sinistra sindacale in un periodo iniziato con le elezioni politiche del 1972, da cui scaturì la firma del Patto federativo Cgil-Cisl-Uil, che fu di certo un concreto passo in avanti nel mondo sindacale, ma non la rottura dirompente tanto auspicata e ricercata dalla sinistra sindacale; tale periodo, poi, giunse a maturazione con la crisi petrolifera del 1973, quando l’economia capitalistica (non solo italiana ma mondiale) svoltò in maniera imprevista, con effetti devastanti per il mondo del lavoro nel breve, medio e lungo periodo, attraverso la riduzione drastica del potere sindacale e la cancellazione progressiva di molte conquiste del ciclo 1968-1973.

Dopo il 1972-1973, dunque, la “sinistra sindacale storica” terminò la sua parabola. Questo non significa che finì la storia della sinistra sindacale tout court. Essa, infatti, rinacque subito dopo come “nuova sinistra sindacale”, cioè legata a quegli ambienti della “nuova sinistra” (dal Pdup a Democrazia proletaria) i quali non si rassegnavano alla fine del “lungo ‘68” e che passarono buona parte degli anni settanta a opporsi alle prospettive di avvicinamento tra comunisti, socialisti e democristiani, secondo quanto previsto dalla linea del “compromesso storico”. Furono proprio 103 dirigenti della nuova sinistra sindacale ad astenersi nell’Assemblea dell’Eur del febbraio 1978, nel pieno dei governi di “solidarietà nazionale”, per contestare la “linea dei sacrifici” imposta dalle Confederazioni. Quindi, conclusa anche quella esperienza in modo negativo, la sinistra sindacale (questa volta della sola Cgil), o quel poco che ancora ne restava, decise di accettare - suo malgrado - la logica (sempre avversata e respinta) delle correnti, dando vita tra il 1978 e il 1979 alla “Terza componente”.

Infine, dopo il tentativo estremo di resuscitare la “nuova sinistra sindacale”, effettuato con il convegno di Roma dell’aprile 1980 da parte di circa trecento “autoconvocati”, e dopo la comparsa di un nuovo “movimento degli autoconvocati” durante la vertenza sulla scala mobile del 1984, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta si sarebbe aperta una nuova stagione, i cui effetti arrivano fino ad oggi. La caduta del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica, con la fine della guerra fredda, insieme alla scomparsa dei grandi partiti della “Prima Repubblica”, cambiarono radicalmente gli scenari politici, nel quadro di un contesto mondiale dominato dalla globalizzazione economica e dal dilagare della precarietà nel mondo del lavoro. Il sindacato confederale, in ogni caso, riuscì a superare, tra mille tensioni e difficoltà, quella congiuntura così complicata e pericolosa, che mise in discussione la sua stessa esistenza come soggetto politico generale. Così, all’interno delle

Confederazioni, in particolar modo della Cgil, nell’ultimo trentennio nuove “sinistre sindacali” sono tornate a costituirsi (e a dissolversi) con un ritmo sempre piuttosto serrato.

In conclusione, sul piano storiografico, è evidente che quando si ragiona di sinistra sindacale, il pensiero non può che andare all’unica stagione in cui quella esperienza fu in grado di prendersi la scena e fare, appunto, la storia. Per questo motivo, qualsiasi disegno che volesse recuperare e attualizzare quel messaggio, è costretto a fare i conti con le brucianti sconfitte che seguirono le grandi novità del “lungo ‘68” (o meglio del “lungo ‘69”). Avendo ben presente, in definitiva, che non può esistere una sinistra sindacale senza assumere la “democrazia deliberativa”, l’“autonomia programmatica” e l’“unità organica” come gli obiettivi fondamentali del proprio programma, inevitabilmente politico.  


Fabrizio LoretoProfessore di Storia contemporanea dell’Università degli studi di Torino.


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