Natale amaro, il pacco sotto l’albero del governo dei migliori - di Frida Nacinovich

Sire, maestà, riverenti come sempre siam tutti qua. Si possono prendere a prestito le parole della Premiata Forneria Marconi per fotografare la sudditanza che pervade quasi tutti i media e gran parte del mondo politico nei confronti di Mario Draghi. D’accordo, l’ex presidente della Banca centrale europea per l’Italia è una carta importante da giocare nello scenario geopolitico attuale. D’accordo, il giovane professore universitario alla Cesare Alfieri nei primi anni ottanta ha fatto strada, diventando un importante dirigente di Bankitalia e poi guidando l’Eurotower di Francoforte con mano ferma e idee chiare. Ma da qui a santificare la figura di Draghi come il salvatore del paese in questo anno di grazia 2021, ce ne passa.

Ufficialmente, le forze politiche che sostengono il governo dei migliori sono compatte nel difendere l’operato dell’esecutivo. Ci mancherebbe altro, visto che per fare arrivare Draghi a palazzo Chigi sono state sacrificate molte regole, non solo formali. Quando Matteo Renzi decise di staccare la spina al secondo governo di Giuseppe Conte - l’unico con una pallida infarinatura progressista - il sentiero della legislatura era inesorabilmente tracciato verso nuove elezioni. Solo l’asso nella manica tirato fuori da Sergio Mattarella ha messo d’accordo tutti o quasi: soltanto la sorella d’Italia Giorgia Meloni e, sul fronte opposto, il parlamentare solitario Nicola Fratoianni di Sinistra italiana si sono detti indisponibili a far parte di un governo di salute pubblica nato nelle pieghe di una pandemia di cui, ancora oggi, non si vede la fine.

Fin qui la storia, ma le politiche di questi ultimi mesi hanno lasciato parecchio amaro in bocca a una parte consistente dei cittadini elettori. Più che il governo dei migliori, quello di Draghi è stato ben presto definito governo dei padroni. Tanto è vero che le ultime organizzazioni di massa presenti nel paese, i sindacati con in testa la Cgil, hanno espresso a gran voce il loro disappunto, fino ad arrivare allo sciopero generale del 16 dicembre scorso. In questo contesto i resoconti a dir poco agiografici del discorso di fine anno dell’attuale inquilino di palazzo Chigi appaiono intrisi di una melassa appiccicosa, che la dice lunga sul fatto che i media italiani non occupano una lusinghiera posizione nella classifica sulla libertà di stampa. Per la cronaca, il dossier di Reporter senza frontiere conferma l’Italia al quarantunesimo posto, già occupato nel 2020. Fra la Repubblica Ceca e la Corea del Sud, ben distante dalle principali nazioni europee.

La legge di bilancio appena approvata in fretta e furia dal Parlamento, pena l’esercizio provvisorio, più che redistribuire le ricchezze in favore di chi meno ha, indirizza i 30miliardi stanziati verso i soliti noti, industriali in primis. Era difficile immaginare una manovra di segno diverso nell’epoca del “tutti insieme poco appassionatamente” - da Berlusconi a D’Alema, passando per Letta e Salvini - ma i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, un tesoretto che prima del Covid 19 era inimmaginabile avere a disposizione, avevano fatto sognare un destino diverso ai soliti ottimisti di sinistra. Macché.

A conferma che quando si parla di soldi i poveri non hanno diritto di parola, è arrivato un bel pacco di Natale che poco o nulla dà a chi deve lavorare per vivere, mentre semplifica ulteriormente la vita ai padroni del vapore. Con la ciliegina amarissima sulla torta di una sostanziale acquiescenza alle scorribande delle multinazionali di turno. In proposito, l’emendamento governativo per contrastare le delocalizzazioni è solo una grande presa in giro. Licenziare diventa una semplice questione di soldi e buone maniere. Di più, la norma pensata dai ministri Giorgetti (Lega), Orlando (Pd) e Todde (M5S) cancella anche il diritto dei lavoratori a difendersi facendo ricorso alla magistratura. In parallelo, è finita nel cestino la “legge operaia” redatta da un gruppo di preparati giuristi progressisti, che era ben più incisiva nei confronti del padrone che di punto in bianco chiude e se ne va. Lasciando al proprio destino le operaie e gli operai che l’hanno reso ancor più ricco. Quanta ingratitudine.

Eppure Mario Draghi, almeno ascoltando la televisione o leggendo i principali quotidiani italiani, è già asceso allo status di padre della patria. A tal punto che il suo pensiero stupendo di continuare a tenere il timone della nave Italia non più da palazzo Chigi ma dal Quirinale, per sette lunghi anni, è stato accolto da un coro di entusiastiche approvazioni, salvo rarissime eccezioni. Se super Mario fosse uno e bino, il dibattito politico di questi giorni e del prossimo mese di gennaio, quando si voterà per scegliere il successore di Sergio Mattarella, sarebbe di colpo azzerato. Un Draghi capo del governo e un Draghi capo dello Stato. In confronto la distopica, disperata trilogia di Matrix è un bicchiere di acqua fresca. Sire, maestà, riverenti come sempre siam tutti qua.