“Provenivamo da Coop e da Esselunga… occorreva un linguaggio comune” - di Francesco Truscia

IX Congresso della FILCAMS – XII Congresso della CGIL A 30 anni dalla presentazione della mozione Essere sindacato (2)

[Francesco Truscia è stato delegato Cdf e di zona gomma e plastica, delegato Cda Esselunga in seguito segretario organizzativo Filcams Firenze, funzionario di zona Filcams Milano, funzionario regionale Cgil Liguria, funzionario Slc Liguria, segreteria Filctem Genova, direttivo nazionale Filctem e, infine, responsabile ufficio vertenze confederale di Genova]

Mi sono chiesto quanto possa essere utile, per un giovane che milita oggi in CGIL, conoscere il clima e il dibattito del congresso della CGIL del 1991. Fu il congresso che vide per la prima volta gli iscritti votare due documenti contrapposti (“Il sindacato dei diritti” del segretario Bruno Trentin e “Essere sindacato” di Fausto Bertinotti.) Trentin, sindacalista innovatore e di cultura, aveva appena sciolto le correnti di partito che costituivano la CGIL, ricostituita nel ‘44 dal patto tra PCI-PSI-DC, aveva visto poi la fuoriuscita di democristiani e parte di socialisti per fondare la CISL e la UIL nel ‘50 anche grazie a finanziamenti americani.

La CGIL dove ho mosso i primi passi da delegato di fabbrica (zona Sesto-Campi-Calenzano) alla fine anni ‘70 era ancora divisa nelle correnti comunista e socialista, alle quali si era aggiunta una terza che proveniva dall’esperienza fallimentare del PSIUP del ‘72 e nella quale trovava ospitalità chi come me esprimeva posizioni critiche. La CGIL che si accingeva ad affrontare il congresso del ‘91 era una CGIL ancora ammaccata per l’accordo di San Valentino dell’84 (CISL, UIL e governo Craxi) dove i socialisti avevano spaccato l’unità per appoggiare il taglio della scala mobile. Il 1991 era soprattutto l’anno della Bolognina di Occhetto, la nascita del Pds e di Rifondazione Comunista (da parte di una minoranza del Pci che voleva il superamento del capitalismo e da parte di compagni di provenienza extraparlamentare). La CGIL venne attraversata da queste novità politiche e e Bertinotti guidò il documento di minoranza in mezzo a tanti iscritti disorientati, abituati alla disciplina e all’unanimismo nel voto, e apparati sindacali che non avevano fiutato il clima che stava montando.

Essere sindacato era un assemblaggio di esperienze diverse, dagli ingraiani rimasti però nel Pds (Bertinotti compreso) a Rifondazione che aderì senza capire le dinamiche interne del sindacato; infatti, al congresso successivo tentò maldestramente di costituire una sua corrente, oltretutto fuori tempo massimo, e fallì anche per il rifiuto di molti che come noi avevano la tessera di partito in tasca ma credevano nell’autonomia del sindacato. Ma tornando al congresso Filcams di Firenze del ‘91, si affrontavano, nelle assemblee di base, un apparato di una ventina di funzionari per la tesi di Trentin, e il neosegretario Filcams, Gigi Coppini, ingraiano, quindi con la seconda tesi, insieme a noi, un gruppetto di una decina di delegati che riuscivamo a coprire solo le assemblee delle aziende più grosse con i permessi sindacali. Eravamo un gruppo composito proveniente soprattutto dalla Coop e da Esselunga che doveva inizialmente trovare un linguaggio comune.

A presentare la nostra tesi nelle assemblee avevamo una decina di delegati, come già detto, ma questo non ci preoccupava affatto. Avevamo maturato il rifiuto di fare accordi con l’apparato Filcams perché volevamo misurarci sulle nostre proposte e raccogliere su questi i voti dei lavoratori. La nostra forza era il nostro livello di politicizzazione dovuto ai percorsi politici individuali che era visto come un aspetto vincente tra i lavoratori. Oggi, per mettere qualcuno in difficoltà si usa l’espressione “lei è troppo ideologico”: mi fa sorridere pensando a quanto eravamo ideologici noi. Il nostro collante era il rifiuto delle logiche di scambio (sacrifici salariali in cambio di maggiore occupazione, ahimé sempre più precaria), la richiesta di maggiore democrazia interna e il voto vincolante dei lavoratori (spesso si siglavano senza un reale coinvolgimento), il ruolo dei delegati nelle vertenze e nei rinnovi e la fine delle politiche della riduzione del salario reale iniziate nel ‘78 con l’Eur di Luciano Lama (ci aspettava invece una lunga fase concertativa che avrebbe consegnato alle future generazioni i salari più bassi dell’Europa occidentale).

L’apparato della FILCAMS di Firenze mi appariva, nel suo nucleo centrale attorno al segretario di allora (Carlo Chiappelli), come una squadra molto affiatata e attiva, che organizzava feste e iniziative di ogni genere, stampava un giornalino ben fatto e si sforzava di presentare una Filcams fiorentina “moderna”, per il superamento di “vecchi steccati” e favorevole ad aperture totali di negozi e centri commerciali (non si può dire che non siano stati accontentati) e orari di lavoro flessibili e innovativi …

Ricordo il loro slogan accattivante “Se non noi, chi, se non ora, quando” e il grande dinamismo che mostravano. Le assemblee delle aziende più grosse furono un crescendo di voti per le nostre tesi con i compagni che in assemblea sottolineavano di essere delegati contro funzionari a tempo pieno e questo pesava nel voto. Quando, a metà percorso congressuale, intervenne la CGIL confederale mandando segretari comprensoriali e regionali a sostituire i funzionari Filcams nelle assemblee, il tonfo per questi ultimi fu ancora più doloroso. Il congresso si concluse con la vittoria di Essere Sindacato con il 50% dei voti.

Mi viene in mente la dura vita dei nostri compagni ingraiani intenti alla continua mediazione in una fase di rottura storica: il neo-segretario cercò ripetutamente durante il corso delle assemblee di convincerci a un accordo “dignitoso per noi” con l’altra tesi e dovette invece rassegnarsi a vincere il congresso, mentre l’altro ingraiano “di esperienza”, che era stato inserito con me nella Commissione di Camera del Lavoro per il controllo della regolarità delle assemblee di tutte le categorie, spese la maggior parte del suo tempo a cercare di contenermi in Commissione piuttosto che al confronto con i compagni dell’altra tesi.

Sì, può servire la memoria sui vecchi congressi perché la CGIL è cambiata ma è necessario vigilare che non si torni a pratiche del passato, perché la democrazia interna è pur sempre un percorso a ostacoli e il fatto che il mio sindacato, spesso in solitario, abbia garantito battaglie di qualità non vuol dire che siamo immuni da errori di percorso.