Russia 1917: la rivoluzione è anche dei camerieri - di Guido Carpi

Liberando la Russia dal dispotismo zarista e promettendo pace e democrazia, la rivoluzione russa del febbraio 1917 genera nelle masse lavoratrici speranze tanto grandi quanto effimere.

Già in primavera, il governo ha perso la capacità di esercitare una mediazione fra datori di lavoro e salariati, e per il paese si susseguono ondate di scioperi: naturalmente, a condurre il gioco sono le sterminate masse operaie delle grandi fabbriche di Pietrogrado, degli Urali e del Donbass (in particolare i metalmeccanici, i metallurgici e i minatori), ma anche i lavoratori dei servizi – tradizionalmente molto meno organizzati – sfruttano l’occasione per intraprendere le proprie lotte.

In maggio scioperano le lavandaie della capitale, sottoposte a uno sfruttamento feroce, che chiedono la municipalizzazione del loro lavoro, un salario minimo fissato per legge e l’arresto di una parte delle padrone, molte delle quali non esitavano a spianare la pistola contro le proprie dipendenti. Per settimane, i signori di Pietrogrado si devono lavare da soli la biancheria.

A fine giugno lo sciopero dei camerieri di Pietrogrado coinvolge circa 22.500 lavoratori e getta nel caos ristoranti, mense e caffè della capitale, tanto più che molti esercizi refrattari a scendere a patti con gli scioperanti vengono requisiti dai consigli di quartiere a maggioranza socialista e trasformati in cooperative. Ecco come il giornalone liberale “Russkaja volja” (“Libertà russa”, 17 luglio, ed. serale) descrive le due settimane di lotta: «Dei 1.100 ristoranti, mense, sale da tè, caffetterie e trattorie, in cui era stata dichiarato lo sciopero, solo un centinaio di esercizi sono tornati in attività». Da notare che l’agitazione sindacale non riguardava un aumento salariale, ma… l’abolizione del “prezzo d’ingaggio” a carico dei lavoratori stessi e l’introduzione di una pur minima paga! Fino ad allora, infatti, i camerieri, infatti, non percepivano alcun salario dai proprietari dei ristoranti, caffè, etc, ma erano loro, al contrario, a pagare per poter lavorare, ottenendo il proprio guadagno dalle sole mance: nei caffè più eleganti, «i camerieri per poter lavorare pagavano ai proprietari somme molto alte, dai 6 ai 20 mila rubli all’anno». Molto pesanti erano stati gli effetti dello sciopero per quella parte di popolazione (non necessariamente abbiente) che era solita sfamarsi nei locali pubblici sparsi un po’ per tutta la capitale: «Ieri ai buffet della stazione si sono formate code fino a 500 persone e più. Molti ristoranti hanno smesso di offrire pasti. Malgrado il sindacato, durante le contrattazioni, abbia richiesto che non ci fossero rincari, ovunque i prezzi sono saliti in un solo giorno dal 25 al 55%». A preoccupare maggiormente il giornale perbene, peraltro, non sono solo le conseguenze immediate dello sciopero, ma quelle – molto più durature – della conquista da parte dei camerieri del diritto ad avere una paga fissa: «L’abolizione delle mance e la trasformazione del “servo” in un cittadino-cameriere» avrebbe infatti rincarato i servizi di almeno una volta e mezzo…

Ma tant’è: ora che sulla testa dei lavoratori non gravano più lo scudiscio del cosacco e lo sfollagente del gendarme zarista, le lotte salariali si diffondono a macchia d’olio. Scioperano facchini, portuali, minatori, e a lungo pende sul Paese la spada di Damocle dello sciopero dei ferrovieri. Costantemente presenti fa le categorie in agitazione, i bolscevichi aiutano gli scioperanti a organizzarsi e acquistano velocemente un credito massiccio: le lotte del lavoro femminile, ad esempio, vengono coordinate dal battagliero settimanale “Rabotnica” (La lavoratrice), guidato dalla combattiva bolscevica Aleksandra Kollontaj e guardato un po’ storto da altri compagni per le «tendenze femministe»; alle iniziative organizzate dalla rivista accorrono folle che a volte sfiorano le 10.000 lavoratrici.


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