Partigiano Karim - di Sergio Sinigaglia

Karim Franceschi è un giovane militante del centro sociale Arvultura di Senigallia. Per tre mesi è stato a Kobane in prima linea contro il Califfato nero. A metà aprile ha raccontato in pubblico la sua esperienza. Ad ascoltarlo e a riprenderlo testate giornalistiche e televisive nazionali. Nel nostro piccolo c’eravamo anche noi di “reds”. A molti interessava sapere se e come e quanto ha combattuto. A noi per cosa.

Karim è tornato, sano e salvo. Tre mesi fa aveva annunciato, tramite una lettera pubblica, di essere arrivato a Kobane per combattere a fianco della resistenza anti Isis. Stiamo parlando di Karim Franceschi, venticinquenne senigalliese, militante del locale Centro Sociale “Arvultura”, che ha passato novanta giorni sul fronte del conflitto che oppone il Califfato Nero alla libera comunità del Rojava. Una scelta coraggiosa ed estrema, inusuale per i tempi aridi che viviamo, oppure, viceversa, emblematica di quella specie di guerra civile globale in cui siamo da tempo immersi.

Come è maturata la decisione di andare a combattere?
Sono andato una prima volta con Rojava calling che ora è una “piattaforma” con più soggetti, ma che nasce come progetto dei centri sociali. In questo caso si trattava di una missione umanitaria. Poi ho deciso di arruolarmi. Non c’è mai una sola ragione che ti porta a fare una scelta simile. Certo l’impatto con il campo profughi ha voluto dire molto, ma sono subentrate anche ragioni legate ai miei affetti. Mio padre, che non ho conosciuto, era partigiano, quindi volevo seguire le sue orme. Poi c’è il mio essere comunista. Per me non ci sono Stati, ma Patrie fondate sulla Costituzione come la nostra, e soprattutto compagni che la pensano come me. A Kobane ne ho conosciuto tanti. Vengono soprattutto dalla Turchia, in rappresentanza di partiti comunisti. Sono lì non tanto e non solo come “testimoni” ma per contribuire alla lotta per il socialismo.
Non è proprio una brigata internazionale come in Spagna, ma ci sono tanti gruppi che combattono per liberare Kobane. Sulla base della mia esperienza ho visti soprattutto militanti turchi. Ho saputo che altri vengono dalla Germania, per il partito comunista marxista-leninista. Al mio fianco ha combattuto un ebreo americano di cui sono diventato grande amico.

Come hai fatto a passare da un contesto come il nostro, ad uno scenario di guerra?
La paura è tanta. Noi siamo desensibilizzati rispetto alla guerra e, naturalmente, è una cosa positiva. Pensa alle donne che lì sono tante e non hanno nessun approccio verso la logica militare. Ma per arrivare ad imbracciare un fucile servono solo determinazione e coraggio, oltre naturalmente a una forte convinzione, una ideologia che ti sostenga. Poi ovviamente per avere coraggio devi avere paura.

Com’era la situazione quando sei arrivato e ora cosa sta accadendo?
Quando sono arrivato la situazione era drammatica. La liberazione è stata possibile con tanto sacrificio e tanto coraggio. Quanti fossimo a combattere non ne ho idea. So che riuscire a liberare Kobane è costata mille morti tra le nostre fila.
Ora la popolazione civile sta tornando, sono rientrate centomila persone, ma hanno tutte le case distrutte. Kobane sembra Stalingrado dopo l’invasione nazista. L’obiettivo è instaurare un autonomismo confederale e democratico. I principi su cui si basa la comunità sono, tra gli altri, un forte femminismo, l’ecologia intesa in senso lato e il rispetto delle diversità. Per quanto riguarda il primo aspetto in ogni carica istituzionale, dalla più bassa alla più alta, se c’è un uomo ci deve essere anche una donna e viceversa. Le donne hanno un ruolo incredibile. Nella cultura siriana sono piuttosto ghettizzate. Sono veramente marginali. Addirittura durante il pranzo si vergognano di mangiare con il marito e se ne stanno in cucina. Quindi in questo scenario potete immaginare cosa significhi diventare comandante di un esercito, o governatrice. E’ una stravolgimento straordinario.
L’altro aspetto è quello ambientale, ma si tratta di ecologia anche politica. Grande importanza viene data alle relazioni umane, al rispetto reciproco. Si vuole affermare un’economia sostenibile con l’habitat ma anche con le persone. Terzo pilastro è la valorizzazione delle diversità, delle minoranze etniche religiose. Se c’è una minoranza linguistica non è possibile che ci sia una lingua principale e una secondaria. Se ci sono due lingue lo Stato ne avrà due ufficiali.
A Kobane c’è solo il curdo, ma in altri cantoni dove ci sono arabi, curdi, assiri, convivono in armonia senza nessuna prevaricazione.

Che sostegno c’è da parte della comunità internazionale?
L’Italia non ha partecipato alla coalizione Nato, che sta aiutando militarmente la resistenza, ma dal nostro Paese arrivano tantissimi aiuti da parte della popolazione civile, associazioni ma anche Comuni che fanno raccolta di materiali vari. Quindi l’unico che manca è il governo Renzi. Ora che Kobane deve essere costruita è l’occasione giusta per tutti. In questo senso faccio appello anche alla Cgil di dare il proprio contributo, sempre che lo abbia già fatto.

 


Print   Email