Conclusi gli anni di dura repressione antioperaia e di egemonia politica del centrismo democristiano, la decisione del governo monocolore DC Tambroni di accettare i voti determinanti del MSI nella primavera/estate del 1960 aveva come obiettivo una forte torsione verso destra dell’intero quadro politico allo scopo di impedire l’apertura a sinistra e l’ingresso dei socialisti al governo. Ricorda Guido Crainz che: “le trasformazioni del Paese erano entrate in contraddizione stridente con la cornice politica degli anni Cinquanta, al cui interno si saldavano conformismo cattolico ed anticomunismo di antica data, orientamenti conservatori in campo sociale e chiusure culturali rigide, liberismo economico ed utilizzo clientelare degli apparati dello Stato.” I settori più conservatori della DC e dei grandi potentati economici tentarono di opporsi al nuovo clima che si respirava, e il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, confermò nel giugno del 1960 l’incarico a Tambroni nonostante tre ministri si fossero dimessi per protesta contro l’appoggio dei neofascisti.
Gronchi, vecchio dirigente del partito popolare e uno degli esponenti di maggior rilievo della sinistra democristiana, era stato eletto nel 1955, con una maggioranza anomala che comprendeva l’opposizione di sinistra ma anche la destra monarchica. La provocazione lanciata dal MSI con la convocazione del congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, determinò il precipitare degli avvenimenti, a partire dai fatti del 30 giugno che ebbero ripercussioni in tutta Italia. Anche la Sicilia ebbe un ruolo rilevante in quegli avvenimenti. Dopo la rivolta di Genova, anche nell’isola all’inizio di luglio ebbero luogo imponenti mobilitazioni. In realtà, nell’isola si era già in presenza di diffuse iniziative di lotta. La CGIL siciliana aveva organizzato in giugno insieme a CISL e UIL uno sciopero generale regionale su una piattaforma di rivendicazioni contro il governo centrista di Benedetto Majorana della Nicchiara e già in quell’occasione si erano verificati scontri con la polizia. La logica meramente repressiva nella quale si muoveva il governo nazionale era emersa anche nei fatti di Licata, grosso centro in provincia di Agrigento, dove lo sciopero del 5 luglio era stato indetto su una piattaforma rivendicativa locale. Nonostante in testa al corteo vi fosse il sindaco democristiano Castelli e la manifestazione vedesse la presenza di tutti e tre i sindacati confederali, la polizia caricò i manifestanti, uccidendo un uomo e ferendone altri.
La Sicilia era attraversata da un notevole fermento sociale: allo sciopero generale nazionale dell’8 luglio, indetto dalla sola Cgil, aderì ad Enna l’88% dei minatori e il 75% degli edili. A Palermo, la mattina dell’8 luglio la tensione era già altissima: la sera prima la Prefettura aveva vietato il comizio del leader comunista Girolamo Li Causi. Il corteo che si snoda lungo via Libertà è circondato da ingenti forze di polizia. A piazza Politeama Pio La Torre, segretario regionale della CGIL, aveva cominciato a parlare solo da qualche minuto quando cominciarono le cariche. Rapidamente, le poche centinaia di metri di strada che separano piazza Politeama da piazza Verdi si trasformano in terreno di duri scontri che sarebbero durati fino a sera. Oltre agli operai dei Cantieri Navali ed agli edili parteciparono in massa i ragazzi dei quartieri popolari. Le forze dell’ordine spararono provocando quattro morti e decine di feriti. A Catania, la mattina dell’8 sindacalisti e militanti presidiavano i cantieri per facilitare l’adesione allo sciopero dei lavoratori edili, che costituiscono il nerbo della giovane classe operaia etnea. Nella mattinata molti dirigenti sindacali e lavoratori affollavano la Camera del Lavoro, in attesa della manifestazione fissata per il pomeriggio. Intorno alle 18 gli eventi precipitarono e cominciarono gli scontri lungo la centralissima via Etnea. “Circa quattromila dimostranti, studenti e lavoratori, figli della borghesia e ragazzi dei quartieri più popolari e degradati furono partecipi di una vera esplosione di rabbia” (A. Miccichè, Catania, luglio ‘60, Futura editrice, 2010). Partirono le cariche, alle quali si rispose con lanci di pietre e calcinacci. I manifestanti si difesero erigendo una barricata, le forze dell’ordine spararono all’impazzata. Un giovane edile disoccupato iscritto al PCI, Salvatore Novembre, venne colpito alla gola e lasciato ad agonizzare per più di un’ora al centro della piazza. La sede della Camera del Lavoro, piena di militanti, restò assediata dalle forze dell’ordine fino a tarda notte. Non a caso i morti siciliani delle giornate di luglio appartengono alla parte più combattiva della nuova classe operaia meridionale e sono quasi tutti giovanissimi. Tre sono edili: Francesco Vella, dirigente sindacale, Andrea Gancitano a Palermo e Salvatore Novembre a Catania. Tranne Vella (poco più che quarantenne) e Rosa La Barbera (casalinga cinquantatreenne uccisa da uno dei colpi sparati dalla polizia mentre si accingeva a chiudere le finestre di casa), si tratta di ventenni, quando non di ragazzini. Novembre, originario di Polizzi, che si era sposato giovanissimo ad Agira ed era immigrato a Catania in cerca di occupazione, aveva poco più di vent’anni; Napoli, ucciso a Licata, aveva 24 anni; degli uccisi a Palermo, Malleo aveva appena 16 anni, Gancitano addirittura 14. Sono rimasti nel ricordo popolare come i “ragazzi dalle magliette a strisce”, simbolo di una volontà di opporsi alla sopraffazione e allo sfruttamento che appartiene alle pagine più gloriose del movimento democratico siciliano.
La svolta a sinistra che seguì quel luglio di sangue e rabbia popolare sarà, pur tra contraddizioni ed occasioni perdute, uno dei motori del cosiddetto miracolo economico e delle lotte per il lavoro ed i diritti sociali che condurranno alle vittorie operaie della fine degli anni Sessanta ed alla conquista nel maggio 1970 dello Statuto dei lavoratori. Una fase di sviluppo sociale, civile ed economico cambiò profondamente l’Italia e che si inscrive all’interno di quella che lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito la “golden age” dell’Europa, i trent’anni di crescita che vanno dalla conclusione della seconda guerra mondiale alla crisi petrolifera del 1973.
*Franco Garufi, socialista, è stato dirigente della FIOM e della CGIL a Catania e in Sicilia e in Calabria. In CGIL nazionale è stato coordinatore del Dipartimento Coesione sociale e Mezzogiorno. È stato vicepresidente del Centro studi e iniziative culturali Pio La Torre ed è responsabile cultura di Auser Sicilia. Autore, tra l’altro, di “Una finestra al quarto piano: La CGIL e il Mezzogiorno, appunti per un futuro condiviso”, Ediesse, 2012, e di “La sinistra italiana e il dilemma dei porcospini: l’arte della frammentazione a cent’anni da Livorno”, IPE, 2021