La minoranza che cercava l’alternativa - di Paolo Andruccioli

Nuova politica dei redditi, regole interne e sviluppo sostenibile. Quali sono i temi che rimangono aperti dopo quasi mezzo secolo di battaglie sindacali?

Non è facile oggi, a tanti anni di distanza, riparlare della Cgil com’era. I giovani sindacalisti e i nuovi delegati non hanno vissuto direttamente i giorni della storica “svolta dell’Eur” e non hanno avuto l’opportunità di contrattare in azienda sulla base di meccanismi automatici di rivalutazione dei salari. Dei Consigli di fabbrica degli anni Settanta hanno letto sui libri e hanno appreso dai racconti dei più anziani. Per una generazione di militanti la fine della scala mobile ha segnato invece una parte importante dell’esperienza sindacale e politica e i problemi di democrazia interna alle organizzazioni erano pane quotidiano. Non avevamo ancora internet, i computer e i primi telefoni cellulari avevano dimensioni, peso e costi che oggi ci fanno sorridere. Anche per lo scenario politico tutto è cambiato: non ci sono più i partiti di massa, dibattiti e costruzione del consenso corrono soprattutto (anche se non solo) sui social network.

Nonostante il cambiamento profondo delle nostre società e del modo di praticare l’esperienza sindacale, è utile ritornare a riflettere sulle scelte di quel gruppo di sindacalisti che hanno deciso di far nascere e vivere per tanti anni la minoranza che ha assunto nomi diversi nel corso del tempo: Democrazia Consigliare, Alternativa Sindacale, Lavoro Società – cambiare rotta. Io ho avuto l’occasione importante di pubblicare un libro per la casa editrice Ediesse (“Spine rosse”, 2008) sulla base di una proposta di ricerca che mi venne fatta da Gian Paolo Patta. E’ stata quella esperienza che mi ha permesso di riflettere sui passaggi storici del dibattito interno all’organizzazione e sulle questioni centrali che hanno fatto sempre da filo conduttore delle scelte politiche dei dirigenti della Cgil, sia di quelli appartenenti alla maggioranza, sia dei leader di minoranza. In questo intervento non mi propongo di ricostruire la storia di quel periodo, ma cercherò di sintetizzare quelli che per me sono stati gli elementi caratterizzanti della storia della minoranza Cgil, cercando di isolare le questioni che – nonostante la grande trasformazione – non sono state superate e risolte. In particolare sono tre i temi che vorrei sottolineare perché rimangono ancora attuali: il rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, il ripensamento sulle regole che presiedono al governo interno di una grande organizzazione e il legame (a volte contraddittorio e conflittuale) tra gli obiettivi sindacali e gli interessi sociali generali.

 

Una rete organizzativa

La natura fortemente legata alla rete dei rapporti interni e ai rapporti con i luoghi di lavoro è la prima caratteristica che vorrei mettere in evidenza del gruppo della minoranza che si distinse dalla Terza Componente storica (nella Cgil, prima del superamento delle correnti interne voluto da Bruno Trentin, c’erano i comunisti, i socialisti e i rappresentanti della Terza Componente). Oltre alla constatazione concreta delle capacità organizzative del gruppo vorrei azzardare qui una possibile differenza tra la Terza Componente e il gruppo che allora si chiamava Democrazia Consiliare. La prima minoranza, quella della Terza Componente (scusate il bisticcio numerico) traeva le sue origini direttamente da un dibattito dialettico (che spesso si trasformava in scontro) tra gruppi dirigenti e posizioni politiche e ideologiche. Il gruppo di Democrazia Consigliare, come suggerisce il nome stesso, trae invece le sue origini dallo scontro che ha visto protagonisti (soprattutto al Nord) i Consigli di fabbrica e il movimento degli “Autoconvocati” dopo la rottura sul taglio della scala mobile e la famosa svolta di Luciano Lama che nel Congresso dell’Eur e con una famosa intervista dal direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, aveva parlato delle variabili “dipendenti” dell’economia.

Come sappiamo i voti contrari alla mozione presentata dalla segreteria di Lama al Congresso dell’Eur furono una manciata. Su 1457 sindacalisti Cgil votanti i no furono 12 e 103 gli astenuti. Ma il dissenso contro le scelte dell’organizzazione a proposito di politica dei redditi era molto più esteso di quello che i numeri raccontavano. Il punto importante che vorrei sottolineare è che non si trattava solo di equilibri tra gruppi dirigenti. La particolarità e l’originalità dell’esperienza di Democrazia Consigliare sta nella capacità di creare un filo diretto tra il dissenso tra i lavoratori in fabbrica e negli uffici e i rappresentanti della minoranza Cgil. La rete organizzativa si sviluppò inizialmente in Lombardia, dove operava Patta insieme ad altri dirigenti che saranno protagonisti delle tante esperienze successive. La capacità di creare reti e strutture organizzative che assicuravano una continuità del lavoro sindacale di base erano anche il frutto delle esperienze politiche precedenti dei dirigenti. In particolare molti venivano direttamente da Avanguardia Operaia, gruppo politico “extraparlamentare” che proprio in quegli anni (anni Ottanta) aveva portato a termine la sua revisione della posizione politica sul sindacato. Si era passati da una critica tutta esterna al “moderatismo” delle confederazioni all’indicazione di partecipare direttamente alla vita del sindacato a partire dai luoghi di lavoro. Democrazia Consigliare traeva quindi il suo modo d’essere direttamente dall’organizzazione pratica e politica del Movimento dei Consigli, una delle esperienze più alte dal punto di vista della sperimentazione della rappresentanza e rappresentatività nata dalle lotte degli anni Settanta.

L’importanza di mantenere una rete organizzativa stabile al di là degli scontri congressuali e la necessità di sperimentare forme nuove di partecipazione sono rimaste tra i punti fermi per la minoranza guidata da Gian Paolo Patta e hanno anche caratterizzato l’elaborazione teorica di cui troviamo traccia nella documentazione di cui una parte è pubblicata nel libro Ediesse, “Spine rosse”, costruito su una ricostruzione storica dei fatti, una serie di interviste ai protagonisti e appunto un apparato documentale. La questione della rappresentatività e della rappresentanza rimane – a livello generale – una questione attuale e aperta, visto che per esempio, dopo anni di battaglie, il sindacato confederale italiano non è riuscito ancora a ottenere una legge nazionale sulla rappresentanza che applichi i principi teorici della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori.

 

La riforma “costituzionale”

Un’altra caratteristica importante dell’esperienza di Democrazia Consigliare e poi di Alternativa sindacale e Lavoro e Società riguarda il discorso sulle regole. Essendo una minoranza all’interno dell’organizzazione, i leader dell’opposizione Cgil hanno sempre sentito il bisogno di appellarsi alle regole e alla necessità di un loro continuo aggiornamento per garantire un “diritto al dissenso” nel rispetto delle scelte di tutta l’organizzazione e quindi dell’interesse dei lavoratori. Questa spinta e questa attenzione hanno avuto alcuni sbocchi pratici che hanno progressivamente cambiato il modo di gestire la vita interna del più grande sindacato italiano nonché gestire le crisi politiche dovute a scelte non condivise. Il caso più eclatante fu ovviamente la battaglia sulla politica dei redditi, i sacrifici e la moderazione salariale.

Sul piano dei fatti e delle ricadute pratiche della battaglia di minoranza sulle regole posso ricordare qui l’accordo sulla riforma delle Rsu del pubblico impiego e l’introduzione di nuove regole per la gestione del rapporto sempre difficile tra maggioranza e opposizione all’interno di una grande organizzazione sindacale. Il primo frutto della battaglia sulle regole e la rappresentatività è stata l’approvazione del Decreto legislativo del 1997 sulla rappresentatività del pubblico impiego. Con quel decreto si è introdotto il concetto della rappresentatività “oggettiva”. Il livello della rappresentatività effettiva delle organizzazioni sindacali operanti nei settori del pubblico impiego veniva legata direttamente al numero delle deleghe sindacali e dei voti ottenuti nel processo di elezione delle Rsu, le Rappresentanze sindacali unitarie. Solo in base al riscontro oggettivo dei “pesi” delle singole organizzazioni diveniva possibile un criterio di ammissione alle trattative sindacali. Con il decreto si stabilì che entro il 1998 si sarebbero dovute eleggere le nuove Rsu in base al principio della proporzionalità. Tutti i lavoratori avrebbero potuto votare e alle Rsu vennero trasferiti tutti i poteri delle vecchie Rsa, le rappresentanze di sigla. Un’altra regola importante riguardava la validazione dei contratti nazionali pubblici. Da quel momento i contratti – per ritenersi validi – avrebbero dovuto essere firmati da organizzazioni rappresentative del 51% della media di deleghe e voti o almeno del 60% dei voti.

Un altro episodio del percorso della battaglia carsica sulle regole di cui la minoranza Cgil fu protagonista riguarda un accordo “interno” all’organizzazione. Sulla base di un confronto intenso tra la maggioranza dell’organizzazione rappresentata dall’allora segretario generale Sergio Cofferati e Gian Paolo Patta, leader della minoranza, si arrivò a siglare nel 2002 il patto delle regole. Si trattava di una formalizzazione di una sorta di “protocollo” dei rapporti tra il gruppo maggioritario e le posizioni minoritarie che esprimevano punti di vista diversi sulle scelte politiche e sindacali di fondo. Alla fine di una discussione che si protrasse per circa un anno le nuove regole vennero tradotte in Delibere regolamentari che sono state allegate allo Statuto della Cgil. Nel libro che ho curato furono i protagonisti di quella discussione a spiegare il senso e l’importanza delle nuove delibere regolamentari. “Quella fu la nostra riforma costituzionale” è il titolo dell’intervista a Sergio Cofferati. “Quando scoprimmo l’importanza delle regole”, il titolo della intervista a Gian Paolo Patta.

 

Una minoranza “ambientalista”?

L’ultima caratteristica che vorrei ricordare delle posizioni che hanno segnato l’esperienza della minoranza di Lavoro Società riguarda la critica alla politica economica e alle scelte in tema ambientale. Nel Documento alternativo presentato dalla minoranza al XIV Congresso della Cgil nel 2002, oltre ad un bilancio politico sociale degli anni Novanta, segnati da controriforme che hanno indebolito il potere dei lavoratori e le loro condizioni sociali, si propone una linea “alternativa” alle soluzioni determinate dalla Confindustria. Il punto di interesse di quel documento riguarda l’analisi degli effetti deleteri del liberismo sia nel campo sociale, sia in quello ambientale. Le scelte economiche liberiste, secondo gli estensori del documento di minoranza hanno reso ancora più pesante una crisi mondiale che già in quegli anni (anni Novanta del secolo scorso) aveva cominciato a mettere in discussione gli equilibri naturali di tutto il pianeta. Vale la pena di riproporre l’analisi del Documento. “La modificazione progressiva del clima con l’accentuarsi degli eventi catastrofici, la pericolosità progressiva dei cibi, il degrado del territorio, l’inquinamento e l’invivibilità delle grandi città mostrano, come era prevedibile, che non è stato sufficiente eliminare le lavorazioni più nocive e inquinanti spostandole nei paesi più arretrati. “Questi anni ’90 non ci consegnano solo un bilancio sociale negativo, ma anche una situazione economica e industriale in logoramento e un deterioramento che inizia a incidere sui fondamenti dell’insediamento umano”.

Oltre all’analisi, a quanto pare molto lucida delle trasformazioni, la minoranza Cgil, in questo spesso in sintonia con le elaborazioni della segreteria nazionale e della maggioranza, avanzava alcune proposte per una svolta necessaria e urgente delle politiche. Sempre nel documento citato si parlava di una nuova politica economica alternativa a quella imposta dal neoliberismo, nuove priorità per i redditi dei lavoratori e un ripensamento dei consumi. “C’è bisogno – recita il documento della minoranza – di un cambiamento della politica economica che dia priorità ai redditi popolari e ai consumi rispetto al rigore finanziario, che orienti lo sviluppo economico per competere sulla qualità dei prodotti piuttosto che sul loro costo. C’è bisogno di una politica industriale che sappia mantenere un ruolo al nostro Paese nei settori tecnologicamente avanzati e di un nuovo intervento pubblico nell’economia certamente diverso rispetto al passato, ma senza il quale il recupero del divario del Mezzogiorno non è colmabile. C’è bisogno di una politica a tutela dell’ambiente, del territorio, della salute, ma, soprattutto, di riorientare il sistema economico e industriale verso una sostenibilità sociale e ambientale che impedisca processi irreversibili di degrado”. Di fronte alla debolezza della posizione europea su questi temi e della mancata ratifica da parte degli Usa del Protocollo di Kyoto, la minoranza Cgil riaffermava la necessità di rilanciare insieme critica sociale e critica ambientale. Solo dal loro connubio sarebbe stato possibile cambiare davvero “rotta”.

 

Conclusioni rapide

Ci sarebbero molte altre “quistioni” (termine di Gramsci) da sviscerare, ma non è questa la sede. Ho cercato solamente di isolare questi tre temi perché mi sembrano, a distanza di tanti anni, ancora caratterizzanti dell’esperienza della minoranza Cgil. Sono problemi molto complessi a cui si è cercato di dare una risposta per praticare un modo più democratico e aperto di vivere l’esperienza sindacale. Tante questioni che oggi ritornano di attualità sotto altre forme. La Cgil si sta per esempio ponendo il grande obiettivo di allargare la sua rappresentanza anche a quelle aree del mondo del lavoro che oggi sono completamente isolate sia come professioni, sia come individui. Basti pensare ai riders. Non parliamo poi dei temi ambientali che da antiche battaglie per una società sana sulla base di un lavoro sano che erano relegate magari a singole vertenze, oggi sono “tracimate” e hanno acquistato una inedita centralità dettata dall’urgenza di fare qualcosa e farla presto. Discorso analogo sui temi della democrazia che seppure incanalati su binari innovativi all’interno dell’organizzazione non sembrano affatto risolti a livello generale. Basti pensare alla società del controllo e alla comparsa di nuovi protagonisti che - a sorpresa – invece di essere dei robot come immaginavamo sono delle sequenze di numeri e nessi logici contenuti negli algoritmi. Per i sindacalisti di oggi è dunque importante guardare indietro per immaginare il futuro. Analizzando con attenzione anche quello che le generazioni precedenti sono riuscite a consolidare. Anche per tutti coloro che si riconoscono in una minoranza, come per tutti i sindacalisti e i delegati, può essere sicuramente utile lo stimolo a riflettere sulle cose teorizzate e su quelle effettivamente realizzate, visto che come diceva Marx (ma su questo punto non è mai stato solo nella storia del pensiero) non si giudicano gli uomini da quello che dicono, ma da quello che fanno.

 


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