Essenziale, sottopagato e senza certezze: gli ossimori del lavoratore in appalto - di Matteo Baffa e Luigi Romeo

I coordinamenti nazionali di settore, uno strumento necessario

Nella primavera del 2020 emersero verità volutamente rimosse: solo un servizio sanitario nazionale centralizzato e veramente pubblico, diffuso nel territorio, universale e di qualità avrebbe potuto limitare gli enormi danni diretti e indiretti che la pandemia ha causato, dal terribile numero di vittime alle conseguenze sulla salute di chi non ha potuto continuare adeguatamente le proprie cure a causa di ospedali off limits.

Il paese viene trainato, anche nei momenti di maggior crisi, da qualche milione di lavoratrici e lavoratori essenziali di diverse categorie, dall’ambito sanitario appunto (non solo medici e infermieri), a quello dei trasporti e della logistica, dall’alimentare alla grande distribuzione. Settori disparati ugualmente imprescindibili per la continuazione della vita quotidiana; mestieri diversissimi tra loro per competenze e destinazione, accomunati in larghissima parte da una intollerabile condizione: l’appalto, cioè precarietà e sfruttamento. La stragrande maggioranza di queste lavoratrici e lavoratori (personale delle pulizie, trasportatori, tecnici, magazzinieri, impiegati…) vive nella perenne contraddizione di essere essenziale e contemporaneamente sottopagati e non poter avere mai una reale stabilità, un futuro sicuro. Questa contraddizione risulta ancora meno digeribile nell’àmbito degli appalti pubblici.

In questo anno abbiamo ingenuamente sperato che la politica cogliesse l’occasione per rivedere il proprio approccio ed invertire la tendenza alla privatizzazione dei servizi pubblici e che il sindacato rivendicasse con maggior forza la necessità di un cambio di rotta, una spinta verso le internalizzazioni e verso salari sufficienti ad una vita dignitosa. Invece eccoci alle solite, l’ultima ondata pandemica ha inaugurato una nuova fase politica, con un nuovo governo di “responsabili” che ha tentato di mettere mano al codice degli appalti, e non per migliorare la condizione di chi lavora. La CGIL si è messa di traverso minacciando uno sciopero generale, e la volontà di sdoganare nuovamente il massimo ribasso è stata ricacciata indietro. Di più: ai lavoratori dei subappalti (pubblici) sarà garantito il medesimo trattamento economico e contrattuale di quelli dell’appalto principale. Una barricata, l’ennesima, per non arretrare. E questo è importante.

Se dovessimo tracciare un grafico dell’andamento dei diritti dei lavoratori degli ultimi decenni lo scenario sarebbe impietoso. È solo responsabilità di una politica liberista e di un centrosinistra che di sinistra ha quasi nulla? O forse anche noi Cgil abbiamo qualche colpa? Abbiamo forse troppe volte peccato di prudenza e rinunciato allo scontro per distorto senso di responsabilità dettato dalle circostanze (vuoi la crisi economica, vuoi la pandemia) e quindi generato uno scollamento con il mondo del lavoro che rappresentiamo. L’àmbito della lotta sindacale negli appalti è esemplare e sintomatico di una strategia non più sostenibile.

Maurizio Landini ha denunciato il paradosso che affligge milioni di italiani, esser poveri pur lavorando; ha rivendicato con forza: stesso lavoro, stesso salario. Un principio rivendicato nel nostro ultimo documento congressuale, che nel mondo degli appalti pubblici rimane un obiettivo lontano.

Da decenni le aziende sanitarie scaricano nelle mani dei privati la gestione di una fetta sempre più ampia di servizi essenziali, compromettendone qualità e continuità ai danni della collettività, disgregandone e impoverendone la forza lavoro. Appalti spezzettati tra più cooperative e aziende, che spesso adottano CCNL differenti (multiservizi, cooperative sociali, commercio) per le medesime mansioni; un sistema a scatole cinesi, in realtà dipendenti spesso da un’unica azienda madre, che permette all’appaltatore di tenere saldamente sotto controllo la “manovalanza”, frammentandola e complicando l’eventuale azione sindacale.

Accomunano lavoratrici e lavoratori di queste realtà salari inadeguati (in particolare se messi a confronto con quelli dei colleghi dipendenti diretti dell’azienda sanitaria), part time involontari dilaganti, costante precarietà dovuta ai periodici cambi d’appalto all’insegna dei progressivi ribassi e svalutazione professionale. La contrattazione locale, che ha pur portato in molti casi a conquiste importanti, è necessaria ma non sufficiente.

Siamo lavoratori dei centri di prenotazione delle aziende sanitarie del Piemonte e di Venezia che, insieme ad altre delegate e delegati di tutta Italia, siamo riusciti a creare “dal basso” un embrione di coordinamento nazionale, abbiamo un quadro nitido della nostra condizione generale e una consapevolezza: se le singole lotte rimarranno slegate, localizzate, non arriveremo ad alcun cambiamento strutturale.

Abbiamo bisogno dell’istituzione di coordinamenti nazionali di settore con lo scopo di far emergere e comparare le condizioni di lavoro nelle varie filiere, rivendicarne un’armonizzazione verso l’alto su tutto il territorio, ma soprattutto che possano produrre studi di fattibilità (che in altri settori hanno portato a grandi traguardi, vedi appalti storici) che possano smascherare la fantomatica convenienza economica dell’esternalizzazione negli ospedali così come in altri àmbiti pubblici.

L’obiettivo quindi l’internalizzazione o una dimensione di stabilità e riconoscimento adeguato. In Puglia, la creazione di società in house, gestite dal pubblico, ha permesso l’assunzione diretta di centinaia di lavoratrici e lavoratori fino a poco tempo fa strangolati dal giogo degli appalti, eludendo il rischio di estromissione dei concorsi e consentendo ancheun trattamento economico e contrattuale più pertinente e dignitoso.

Crediamo che proprio su questi punti il nostro sindacato debba rivedere la propria strategia. Occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il sistema, attaccare il ricorso agli appalti e riportare nel diritto, la legalità e la sicurezza milioni di donne e uomini.
Non stiamo parlando solo del nostro lavoro, ma di quello di una grandissima parte di lavoratrici e lavoratori essenziali costantemente sfruttati e rimbalzati da un appalto (o subappalto) all’altro come fossero palline. Donne e uomini che, in quest’ultimo tragico anno, hanno dimostrato più che mai di essere una parte fondamentale e imprescindibile per il futuro di questo smemorato paese.


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