C’è chi vince e c’è chi perde, questa volta ha perso la Lega - di Frida Nacinovich

Hanno vinto tutti, come succede all’indomani di ogni voto in Italia? Almeno in questo caso, per qualcuno cantar vittoria è un po’ più difficile che per qualcun altro. Innegabile che il centrodestra governi più regioni del centrosinistra (15 su 20), e che in questa tornata elettorale anche le Marche siano state conquistate dalla triturati di destra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia), ma per chi galvanizzava il proprio elettorato pronosticando un 6 a 0, il pareggio 3 a 3 suona come una mezza sconfitta. Due regioni popolose come Campania e Puglia, e una simbolicamente importante come la Toscana hanno respinto l’assalto di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, con l’anziano Silvio Berlusconi che benediceva i candidati alla presidenza dalla sua villa di Arcore.

Purtroppo per la destra italiana, il Cavaliere sta lentamente ma inesorabilmente uscendo di scena. Questioni di età - in questi giorni compie ottantaquattro anni - e di un’esistenza vissuta a mille all’ora. Però senza di lui viene a mancare l’aggancio all’Europa, considerata una matrigna cattiva dal dinamico duo Salvini & Meloni, e che invece in questi mesi ha mostrato quantomeno buona volontà nel socializzare gli aiuti miliardari per far fronte a una pandemia che sta colpendo l’intero continente. Alla fine l’elettorato delle regioni al voto - c’è stata anche la piccola Valle D’Aosta, ma lì deciderà il nuovo consiglio regionale, alla vecchia maniera - ha preferito quello che il simpaticissimo e bravo Paolo Endel ha definito “l’usato sicuro”.

Sia nel campo della destra, con la conferma di Giovanni Toti, ieri berlusconiano e oggi totiano, alla guida della Liguria, e del doge Luca Zaia sulla plancia di comando di un Venero che l’ha votato in massa, grato per non aver seguito la sciagurata Lombardia di Fontana e Gallera nella strategia di contenimento del coronavirus, sia in quello del centrosinistra. Qui due governatori uscenti dati a febbraio in netto svantaggio, come il viceré campano Vincenzo De Luca e il vulcanico pugliese Michele Emiliano, hanno sovvertito i pronostici che li volevano sconfitti dopo cinque anni di governo problematici. E in Toscana, dove pure l’esperto Eugenio Giani ha dato 8 punti alla pupilla di Matteo Salvini, Susanna Ceccardi, un eventuale terza candidatura di Enrico Rossi avrebbe fatto ampliare ulteriormente il distacco.

A riprova, la popolarità del governatore toscano uscente, in prima linea contro il Covid, lo aveva portato ad aumentare di ben 23 punti, dal 39 al 62%, il proprio personale consenso fra i cittadini e le cittadine elettrici. Il nuovo non avanza, il Pd invece sì, non tanto per il gradimento degli elettori, visto che il partitone tricolore resta sostanzialmente stabile al 20-21%, quanto per la sua centralità politica. Cui fa da contraltare la tradizionale debolezza del Movimento cinque stelle nelle elezioni amministrative, siano esse comunali o regionali. Per certo il governo Conte bis esce rafforzato dal voto, più per l’oggettiva assenza di un’alternativa, che per la sua effettiva azione politica in questi ultimi mesi. Il centrodestra a trazione leghista infatti ha mostrato ancora una volta tutte le sue crepe, stuccate alla meglio dalle continue affermazioni di unitarietà.

Di fatto l’europeismo di Forza Italia, ribadito a più riprese da un Silvio Berlusconi e dallo stesso Antonio Tajani che si trovano a loro agio nei popolari europei di Angela Merkel, contrasta apertamente con le pulsioni xenofobe e anti-europee della Lega salviniana, lasciando i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, pur in crescita, di fronte alla mission impossible di fare sintesi tra due opzioni politiche divergenti. Oltre alle regionali, in questo strano settembre 2020, c’è stato un altro appuntamento politico di rilievo come il referendum costituzionale. Pur accorpato furbescamente con la tornata amministrativa in sette regioni, il voto sul taglio dei parlamentari non ha lasciato spazio ad equivoci.

Per il 70% degli italiani votanti, ridurre il numero dei rappresentanti e degli eletti dal popolo è cosa buona e giusta. E chi se ne frega delle motivate rimostranze di giuristi e costituzionalisti che, numeri alla mano, hanno avvertito le italiane e gli italiani che i risparmi saranno risibili, e che, in compenso, saranno silenziate parecchio le voci delle forze politiche minori, soprattutto la rappresentanza dei territori ‘marginali’, ad esempio le regioni più piccole e meno popolate. In questo caso, visto che in Parlamento il 97% di deputati e senatori aveva votato a favore del taglio, tutti si possono intestare la vittoria. In particolare i Cinque stelle, che hanno coerentemente seguito la loro stella polare dell’attacco alla cosiddetta ‘casta’.

Ma anche il Pd, se non ha vinto quantomeno non ha perso, con Nicola Zingaretti che ha schierato il partito per il sì, lasciando per altro liberi esponenti anche di rilievo di fare outing sui media a sostegno del no. La Lega ha visto cosa faceva il Pd e ha copiato, mentre fra gli altri partiti in doppia cifra, Fratelli d’Italia, da sempre schierata per il taglio, non ha potuto comunque intestarsi la vittoria perché schiacciata dal protagonismo pentastellato sul tema.

E la sinistra? Sarebbe una buona idea, parafrasando il mahatma Gandhi quando, un secolo fa, gli chiedevano cosa pensasse di un’Europa dei popoli. 


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