Smart working: opportunità o rischio? - di Carlo Cerliani

Le misure di contenimento adottate dal Governo per contrastare la diffusione dell’epidemia da Covid-19 hanno comportato il ricorso forzato alla smart working.

La maggior parte delle imprese e dei lavoratori hanno scoperto la possibilità di lavorare da casa, durante la fase di emergenza. Lo smart working, è bene ricordarlo, è normato dalla legge 81/2017 dall’articolo 18 all’articolo 85. 

La fase di emergenza che stiamo vivendo ha comportato un radicale cambiamento nei comportamenti dei lavoratori e delle imprese rispetto al passato, rappresentando una nuova modalità di organizzazione del lavoro, su cui siamo chiamati a confrontarci.

Le imprese, nel periodo antecedente all’emergenza sanitaria, si dimostravano refrattarie ad utilizzare lo smart working, sia per la modifica del modello organizzativo consolidato, sia per il cambio di paradigma che costringe la valutazione della produttività non sulle ore di lavoro svolto, ma sugli obiettivi raggiunti. Con la conseguenza della revisione del rapporto tra i dirigenti responsabili e il dipendente che lavora in remoto: si deve cioè superare il principio del controllo (tipico del lavoro in ufficio) per passare ad un rapporto basato sulla fiducia. Molta classe dirigente non era disponibile a rinunciare al proprio potere in azienda.

Per il sindacato, invece, se ben contrattato, il lavoro in remoto può rappresentare un’occasione per conciliare i tempi di vita/lavoro.

Su nostra spinta, nella fase pre-Covid, siamo riusciti a sottoscrivere alcuni accordi collettivi (la normativa parla esclusivamente di accordo individuale) che presentavano alcuni argomenti standard: volontarietà, alternanza casa-lavoro, con poche giornate settimanali o mensili di smart working, diritto alla disconnessione, condizioni di sicurezza, diritto al buono pasto, dotazioni tecnologiche.

La situazione di emergenza ha accelerato il ricorso a questi strumenti di lavoro remoto. Il dibattito è stato però dominato da una forte spinta alla deregolamentazione, pur in presenza di un impianto normativo debole e non esente da criticità. Quello che è cambiato e sta cambiando è l’approccio delle imprese rispetto al lavoro agile, che prima consideravano un rischio, ma che ora è divenuto un’opportunità per contenere i costi ed incrementare la produttività.

I lavoratori e le lavoratrici si sono viste catapultate nel lavoro da remoto, senza aver sottoscritto alcun accordo, accettando, a causa della emergenza, condizioni che poco hanno a che fare con la definizione che abbiamo sempre dato al lavoro “smart”: orari di lavoro dilatati e poca capacità di disconnessione, assenza di dotazioni tecnologiche adeguate, difficoltà sulla conciliazione di vita e di lavoro delle persone con particolare riferimento alla condizione femminile, rinuncia al buono pasto.

Se da un lato è in corso una spinta forte da parte delle imprese ad utilizzare lo smart working senza un sistema di regole condivise, in alcuni territori, quelli più colpiti dalla pandemia, c’è anche la pressione da parte dei lavoratori, che, anche per la paura di rientrare nel luogo di lavoro, sono disposti a rinunciare a negoziare le condizioni contrattuali, pur di continuare a lavorare da casa.

Lo smart working non va nè esaltato nè demonizzato, ma è indispensabile regolamentarlo, tenendo ben in considerazione le opportunità i rischi e le ricadute.

Può certamente essere una soluzione per poter garantire il cosiddetto work life balance, a patto però che sia su base volontaria, per qualche giorno a settimana. Preveda il diritto alla disconnessione con una netta divisione tra tempo di lavoro e di vita privata, il diritto al pasto, condizioni di salute e sicurezza certe. Preveda una cornice di agibilità sindacali, che i costi di connessione siano pagati dall’azienda. Infine, in questo elenco di idee per la contrattazione dello smart working, compare un aspetto non secondario: la certezza della formazione e dell’aggiornamento professionale che può garantire maggiore autonomia nel lavoro, valorizzando le competenze dei lavoratori.

Quando si dice che lo smart working non va esaltato è perché oltre agli aspetti positivi fin qui illustrati ci sono insidie e pericoli da valutare: la socialità del lavoro, il modello di lavoro e di città e le conseguenze che la desertificazione degli uffici potrà provocare. Non andare più in ufficio riduce drasticamente la socialità. Solo la presenza fisica in ufficio assicura lo scambio di esperienze e la socializzazione con i propri colleghi. Lavorando esclusivamente, o quasi, da casa, aumenta in maniera esponenziale il forte rischio dell’isolamento.
L’utilizzo massiccio dello smart working può aprire una voragine occupazionale dalle dimensioni incerte e pericolose. Tutto il mondo degli appalti (pulizie, ristorazione aziendale, servizi generali e di guardiania, per fare alcuni esempi) potranno vedere ridimensionate le ore di lavoro necessarie a svolgere le attività, con un impoverimento di chi è occupato in questi settori. Non basta contrattare quindi delle buone prassi per lo smart working; è necessario, in una visione confederale del tema, sapere che le conseguenze della scelta del lavoro in remoto ricadranno su lavoratori non coinvolti in queste discussioni. E’ indispensabile sapere che un sistema della ristorazione, dei trasporti e dei servizi vive del lavoro altrui, e non è banale pensare al giusto equilibrio fra tutte queste variabili.

In conclusione, l’utilizzo dello smart working ha visto una violenta accelerazione causata dall’emergenza sanitaria, ma, oltre agli aspetti potenzialmente positivi, dobbiamo ricordare anche i pericoli che si corrono. Le imprese, abituate da questa fase di emergenza a non contrattare, aiutate da una normativa con molte lacune, potrebbero trovare più semplice e comodo far da sé, stilando regolamenti aziendali a cui ogni lavoratore può aderire.

Abbiamo bisogno di agire come soggetto attivo per governare il cambiamento nei diversi àmbiti di intervento, a livello europeo, nei CCNL e nella contrattazione di secondo livello. Affrontando e tentando di condizionare anche il cambio radicale di modello organizzativo che porterà al modello di società e di città.