Lavoro, politica e Sindacato nella lunga transizione - di Maurizio Brotini

Il quadro politico-istituzionale sconvolto dall’89 non mostra un consolidamento. La fine dei partiti di massa e dell’economia mista hanno oggettivamente indebolito lo stesso movimento dei lavoratori, caricando sulle Organizzazioni Sindacali scelte di dubbia efficacia e di assoluta impopolarità come quelle seguite nella lunga stagione degli anni Novanta, dalla moderazione salariale alla aziendalizzazione della sanità, dalla controriforma pensionistica di Dini alla dismissione delle partecipazioni statali ed alla privatizzazione dei monopoli naturali per arrivare al pacchetto Treu che frantumava legalmente un mondo del lavoro già prostrato dalla contrazione della base produttiva ed occupazionale.

Una stagione che dava ruolo politico alle Organizzazioni Sindacali in un riconoscimento triangolare ma ne indeboliva il consenso e la base di rappresentanza nel mondo del lavoro. Quella stagione di supplenza della politica proseguì durante la stagione di contrasto dei Governi Berlusconi ed in forma diversa nello stesso scontro frontale con le politiche del Governo Renzi. La stessa scelta di proporre leggi di iniziativa popolare per far discutere al Parlamento la Carta dei diritti universali del lavoro e proporre direttamente referendum a sostegno marcava il punto di come nel quadro politico il lavoro come soggetto socialmente determinato e la stessa Cgil non avesse rappresentanza, o rappresentanza adeguata, tra le aule parlamentari. Il punto a lungo rinviato o eluso torna però caparbiamente sempre sulla scena.

Se il Pd e il Movimento5Stelle non possono e/o non rappresentano le istanze del lavoro come classe generale, e se la Sinistra presente in Parlamento e quella fuori non hanno massa critica sufficiente od interesse a porsi il problema della centralità del lavoro dipendente ed autonomo ma economicamente subordinato come asse del proprio radicamento e iniziativa, quali sono le conseguenze sistemiche sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza come il Sindacato Confederale? Chi scrive ha maturato la convinzione che senza una rappresentanza politica strutturata del Lavoro- che si chiama Partito -, nella versione neolaburista intesa come il partire dalla materialità delle condizioni e dai bisogni concreti del mondo dei subordinati e subalterni, di cui il lavoro operaio e manuale non operaio è sempre tanta cosa (come la vicenda Covid-19 ha dimostrato) sarà sempre più complicato sottrarsi ad una corporativizzazione neoconcertativa della nostra azione e ruolo.

Senza un Partito che faccia rivivere a livello di massa che la storia non è finita e che il capitalismo non è la fine della storia, proponendo pratiche e punti di vista altri rispetto alla praticaccia quotidiana, lo scivolamento verso un sensimonismo di destra sempre sotteso alle ipotesi dei patti tra produttori temo possa essere una dinamica oggettiva, un piano inclinato al quale è difficile sottrarsi. Certo, nella storia si è data anche la pratica dell’anarcosindacalismo e del pansindacalismo, il Sindacato che si fa direttamente anche soggetto politico, ma anche questa scelta andrebbe ben discussa e meditata. Sono riflessioni che non dovrebbero interessare solo i singoli iscritti o quadri dirigenti, ma l’intera Organizzazione, non potendo sempre rifugiarsi nella formulazione autonomi ma non indifferenti. Tanto più in una fase nella quale Confindustria tende a porsi come soggetto direttamente politico ridisegnando gli assetti costituzionali in un modo che molto ricorda la Camera dei fasci e delle corporazioni: lo può fare, al netto della rozzezza dell’attuale portavoce, perché tali processi innervano già la nostra società, a partire dai luoghi di lavoro e della riproduzione sociale.

Cosa significa la litania del “siamo tutti sulla stessa barca” dentro l’impresa e nella Nazione se non il fatto che la società non sarebbe più attraversata da faglie riconducibili alla diversa collocazione dei diversi attori nei processi produttivi e nel possesso della ricchezza?

Se una società non si definisce più come pluriclasse perché le classi vengono occultate e mistificate non trovando rappresentanza cadono le Costituzioni moderne, e si torna al massimo al notabilato dell’Italia liberale o al neocorporativismo fascista. Sono temi che meriterebbero una tematizzazione ed una discussione di tutta la Cgil, perché il quadro politico-istituzionale nel quale si colloca la tua azione determina la tua identità, le tue pratiche ed il tuo modello organizzativo.