Il “rischio d’impresa”? Sempre a carico dei lavoratori. Il caso di H&M - di Ilaria Bettarelli

Per lo più i titoli dei giornali riportano le stesse informazioni: il colosso della moda Low Cost, la seconda più grande multinazionale del settore abbigliamento nel mondo, abbassa per sempre i bandoni di ben otto negozi sul territorio italiano e lo fa scegliendo il momento drammatico della pandemia da COVID-19. A chiudere in modo definitivo già dal 18 maggio, sono due negozi di Milano, in via Torino ed in corso Buenos Aires, ed uno a Udine. Dal 9 agosto chiuderà il negozio di Grosseto, poi a novembre quelli di Gorizia, Vicenza, Bari e Bassano del Grappa. A Bari, però, si solleva una piccola polveriera mediatica, interviene addirittura il sindaco a cercare un compromesso con la proprietà, per abbassare l’affitto e rendere più sostenibile il negozio, e i lavoratori esultano anche se non ci sono ancora risposte concrete.

Non è esatto dire che a rischiare il posto di lavoro sono 200 lavoratori. Ci sono due inesattezze: la prima è che ad oggi non si tratta di esuberi, non si tratta di una operazione di licenziamento perché il decreto parla chiaro ed impedisce alle aziende di lasciare i lavoratori per strada. Vero è che l’azienda non sembra avere risposte precise su come ridistribuire questi lavoratori che oltretutto sono in cassa integrazione, una agevolazione che, pandemia o meno, viene fornita alle aziende che intendano proseguire la loro attività e produrre lavoro. In questo senso quindi le risposte dovranno arrivare.

La crisi di H&M però è un simbolo di un problema molto più esteso, qui la seconda inesattezza, che non coinvolge solo quei 138 lavoratori con contratto a tempo indeterminato occupati in questi negozi, ma almeno altri 40 contratti a termine in scadenza che non saranno rinnovati e un vero esercito di contratti Job On Call, cioè a chiamata, che semplicemente, non vengono più “considerati” e sono rimasti senza stipendio. Un conteggio ben diverso che mette in risalto lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, molto più numerosi. Per essere corretti fino in fondo bisogna poi sottolineare che anche definire H&M una azienda in crisi, nonostante il lockdown, manca di rispetto a tutte le altre aziende che in questo momento affrontano davvero una crisi che potrebbe costare caro e che si trasformano, reinventandosi, per restare a galla.

Il fatturato del gruppo nel 2019 vanta un 18% in più di guadagni rispetto al 2018 e nello specifico, un +5,2% solo in Italia. Ovviamente parliamo di milioni di euro. La pandemia coglie questa azienda sana e forte, in crescita e lo dimostrano le attività di pubblicità svolte che assillano, ad inizio anno, televisione e radio. Merito forse anche del lavoro dei suoi più di 5000 lavoratori, più di un terzo dei quali precari e giovanissimi, impegnati da sempre nell’assistenza clienti. E da dicembre del 2018 nell’ossessiva fidelizzazione del cliente alla nuova applicazione per smartphone “Hello H&M Member” che ha la conseguenza, un po’ beffarda, di aumentare le vendite online, in quel mondo a portata di click dove il lavoratore in carne ed ossa non serve. Chiara, RSA di 41 anni del negozio di Vicenza Centro, da otto anni dipendente dell’azienda, dice: “Ho colleghi anche di 46 anni, persone che lavorano da 12 anni in azienda. Ci sono vite dietro le persone fatte di mutui, di figli e di problemi di tutti i giorni… c’è chi piange, ti dico solo questo, oltre alla pandemia c’è anche la mancanza di certezze. Uno dei valori dell’azienda è lavorare in team, essere una grande famiglia e credere nelle persone ma noi ci sentiamo trattati come numeri”. Non è molto diverso quello che dice Barbara, RSU di 53 anni del negozio di Milano, Corso Buenos Aires con colleghi di 40 o anche 60 anni che lavorano in azienda da 16 anni: “Chiediamo a gran voce delle iniziative di solidarietà da parte di tutti i nostri colleghi! Vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica! La gente deve sapere cosa ci sta succedendo! Abbiamo creato una rete, negli anni, di rapporti umani quasi familiari con i nostri clienti e siamo rimasti competitivi fino ad adesso perché questi clienti preferiscono il nostro negozio”. E, ancora, Ylenia, RSA di 35 anni del negozio di Bassano Centro da 9 anni in azienda: “I lavoratori a chiamata sono amareggiati e senza soldi… la delusione è tanta perché sappiamo tutti che l’azienda è sana e stabile, mi domando se chiudiamo noi, come farà il resto dell’Italia ed in questo senso ci sentiamo traditi. Ho una Job On Call che dopo un anno di lavoro a chiamata aveva ottenuto un contratto determinato di sei mesi all’inizio di quest’anno, era felicissima ma poi è stata annunciata la chiusura. Penoso vedere le sue speranze disilluse. È una risorsa importante che ama davvero il suo lavoro”.

Certo, il lockdown ha colpito sicuramente H&M, così come tutte le multinazionali che guadagnano su vendita e acquisto di volumi immensi di merce, merce che come fa moltiplicare i capitali, allo stesso modo, nel momento in cui i negozi sono chiusi, fa perdere cifre da capogiro. Rischio di impresa: questo sconosciuto. Il problema è senz’altro questo, un problema che a quanto pare più che su una virtuosa pianificazione industriale ricade a macchia d’olio sulle risorse umane. Resta impensabile che un’azienda con profitti milionari e che attinge a piene mani agli aiuti statali non sia in grado di mettere in campo una strategia che miri a conservare il livello occupazionale. Un cinismo che ha come alibi il Coronavirus.