Prima gli affari, la salute è venuta dopo - di Riccardo Chiari

Al 31 marzo, secondo la Protezione Civile in Italia erano stati 105.792 i casi totali di positività al coronavirus, con 15.729 guarigioni. La mappa delle positività vedeva, al solito, in testa la Lombardia con 25.124 casi. Poi ce n’erano 10.953 in Emilia-Romagna - meno della metà della Lombardia - e a seguire 7.850 in Veneto, 8.082 in Piemonte, 4.226 in Toscana, 3.352 nelle Marche, 2.508 in Liguria, 2.642 nel Lazio, 1.871 in Campania, 1.389 nella Provincia autonoma di Trento, 1.654 in Puglia, 1.160 in Friuli Venezia Giulia, 1.492 in Sicilia, 1.191 in Abruzzo, 1.142 nella Provincia autonoma di Bolzano, 851 in Umbria, 657 in Sardegna, 606 in Calabria, 552 in Valle d’Aosta, 216 in Basilicata e infine 117 in Molise.

Anche in merito alla tragica contabilità delle vittime, su un complesso di 12.428 morti in Lombardia erano stati registrati 7.199 decessi, quasi il 60% del totale. Di fronte a numeri del genere, gli interrogativi sul “caso Lombardia” si sono moltiplicati. Fra le molte risposte date, una ha riguardato la gestione delle strutture ospedaliere lombarde, dove sono state tardivamente divise le sedi dedicate al virus dalle altre. Un errore amplificato dalla mancata sicurezza del personale sanitario, dagli ospedali ai presidi territoriali, fino alle Rsa.

La risposta più accreditata riguarda però il dato di fatto che nella regione del paese dove ufficialmente tutto è cominciato (21 febbraio a Codogno), il virus ha colpito in particolare in un cerchio stretto fra Milano, Bergamo e Brescia. Ha infierito fra le distese di aziende di ogni genere che portano Brescia in vetta alla classifica italiana per densità produttiva, seguita da Milano e da Bergamo. Quindi non si può parlare di fatalità.

A riprova, il 20 marzo veniva data notizia che, per ammissione della stessa Confindustria Lombardia, il 73% di piccole, grandi e medie imprese dell’area stava andando avanti con il lavoro. In altre parole, nelle aree più epidemiche quasi un milione di lavoratori continuava ad andare avanti più o meno con il consueto tran-tran. E questo nonostante che, già dal 12 marzo, quattro giorni dopo il primo decreto nazionale del governo che ordinava di “stare a casa”, i sindacati confederali con in testa Fiom Fim e Uilm chiedessero, inascoltati, la fermata di tutte le imprese non essenziali.

Si capisce così l’editoriale “Chiudere la Lombardia” del direttore del quotidiano la Repubblica, Carlo Verdelli, che dopo una citazione di un decano della ricerca scientifica come Silvio Garattini (“Bisognava chiudere prima, ora a pagare sono personale sanitario e operai. Il senso della vita viene prima del senso degli affari. Ma qualcuno ha invertito le priorità”), ha tirato le somme: “Il risultato di questo ribaltamento di valori, giustificato dal tentativo di scongiurare almeno in parte il collasso economico annunciato, sta temperando assai poco la deriva della crisi produttiva, mentre sta aggravando di molto l’inventario delle vittime”.


Print   Email