Movimento dei Consigli, novembre 1992: la relazione di Bruno Rastelli

Reds n. 02 - 2020bis Hits: 482

Compagne, compagni, amiche, amici,
Nell’assemblea del 20 ottobre al Teatro Nuovo avevamo denunciato tra i pericoli della democrazia nel nostro Paese il risorgere del fascismo e l’attacco ai valori della Costituzione italiana. La situazione si è aggravata.

Esprimiamo dolore per i crimini nazisti di questi giorni.

Oggi abbiamo la memoria storica. Dobbiamo esercitare una pressione internazionale di massa per troncare sul nascere questo angosciante ritorno di criminalità antisemita e razzista.
L’assemblea del 9 novembre si è conclusa con un ordine del giorno che conteneva due indicazioni:
- aprire una campagna di consultazione di massa con assemblee nei luoghi di lavoro sulla risposta da dare alla manovra governativa [il Governo Amato I, sostenuto da una maggioranza di centro DC, PSI, PSDI e PLI, ndr] con una piattaforma su sanità, previdenza, fisco, inflazione, contrattazione e verificando le condizioni per realizzare lo sciopero generale entro la prima decade di dicembre;
- porre al movimento l’obiettivo concreto della democrazia sindacale, abrogando l’articolo dello Statuto dei lavoratori che dà a CGIL-CISL-UIL il monopolio della rappresentanza e istituendo un unico agente contrattuale in ogni luogo di lavoro.

Riteniamo quindi che la relazione di oggi non abbia tanto il compito di ribadire l’analisi che noi facciamo sulla crisi economica e sociale, sulla logica iniqua e non solidale dei provvedimenti governativi, quanto piuttosto cogliere in primo luogo i risultati della verifica fatta nella campagna di assemblee, gli elementi di novità di queste ultime settimane, i nodi ancora aperti nel confronto con Governo e Confindustria e su questa base assumere le decisioni per le quali è stata convocata questa assemblea.

Lo stato del movimento
Il quadro che ci si presenta è molto complicato. Da un lato sono cresciuti i momenti di partecipazione e di adesione con però un andamento contraddittorio: sono state poche le assemblee unitarie sui luoghi di lavoro, mentre soprattutto, nell’ultima settimana, sono state organizzate numerose assemblee locali e regionali alle quali hanno partecipato sia consigli unitari che delegati.
Le adesioni unitarie si sviluppano con una forte, radicata presenza in Lombardia, e una diffusione nazionale polverizzata da Bolzano a Caltanissetta, con concentrazioni per zone (dall’area del cuoio in Toscana alle fabbriche meccaniche di Torino, dai portuali liguri ai Cantieri navali napoletani).

Questi aspetti sono il riflesso di un movimento che si diffonde e cresce, ma lo fa con termpi e modi legati alle condizioni delle diverse realtà. Questa condizioni riflettono sì la limitata diffusione delle strutture unitarie, ma soprattutto evidenziano le difficoltà di rapporto con le confederazione e tra le confederazioni.

Un rapporto che va dal né aderire né sabotare, all’aderire o al sabotare. In qualche realtà locale si sono realizzati incontri con la CGIL e con la UIL, per esempio in Lombardia, ma il quadro è contraddistinto da un fatto: l’Assemblea nazionale della CGIL con le conclusioni di Trentin e con gli interventi di D’Antoni [Segretario CISL, ndr] e Larizza [Segretario UIL, ndr], ha lasciato ai Consigli la responsabilità di essere soli nelle loro decisioni, riproponendo la contraddizione tra quello che produce l’unità dei consigli, cioè l’unità sul posto di lavoro, e quello che produce l’unità dei gruppi dirigenti delle Confederazioni.
Mentre l’unità dei Consigli chiede iniziative concrete, fatti reali per difendere le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, dallo stato sociale all’occupazione, dall’inflazione al fisco, dalla previdenza alla contrattazione, l’unità dei gruppi dirigenti - anche quando si concentra su una piattaforma come quella dei sette punti per rispondere alla manovra del governo - non si risolve in impegni di mobilitazione, in obiettivi e scadenza di lotta.

Questo ci fa dire che l’unità, che è e deve restare un valore insostituibile, è stata invece trasformata in un vincolo e che il nodo della mancanza di democrazia, cioè con chi e come si decide, è il nodo che soffoca oggi il sindacato.

L’altro elemento riguarda il fronte aperto con la Confindustria sulla contrattazione. C’è un arco di forze, anche qui trasversale, che vuole cancellare l’autonomia della contrattazione articolata, la vittoria di queste forze significherebbe la fine del sindacato così come lo abbiamo conosciuto, un sindacato in grado di contrattare, là dove si determinano le condizioni dei lavoratori, di definire là dove si realizza l’organizzazione del lavoro, di governare là dove si producono i processi di riorganizzazione, di influire là dove nasce sulla redistribuzione del capitale prodotto.

Di fronte a questa situazione, l’atteggiamento delle Confederazioni ci sembra contradditorio. Da un lato tutti sono consapevoli della drammaticità del quadro economico e sociale. A questo proposito ci sembrano importanti le affermazioni fatte dall’Assemblea nazionale della CGIL: non si può considerare chiusa la partita sulla manovra, stato sociale e difesa dell’occupazione sono facce della stessa medaglia, va riconquistato un meccanismo di indicizzazione [il 31 luglio del 1992 fu siglato un accordo tra Governo-Confinustria e sindacati, “protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo, del lavoro” che prevedeva tra l’altro “la definitiva presa d’atto dell’intervenuta cessazione del sistema di indicizzazione dei salari di cui alla legge 13 luglio 1990, n. 191, già scaduta il 31 dicembre 1991” cioè l’abolizione della scala mobile, in cambio di lire 20.000 mensili per 13 mensilità, a partire dal mese di Gennaio 1993 a copertura dell’intero periodo 1992-93, che resterà allo stesso titolo acquisita per il futuro nella retribuzione il cosiddetto “elemento distinto della retribuzione” che compare ancora in numerose buste paga. In seguito alle proteste della base, Trentin rassegnò le dimissioni], la contrattazione articolata non si tocca. Dall’altro lato però si ripete il medesimo meccanismo: si è più o meno d’accordo sull’analisi, si individuano obiettivi e strumenti, ma non si concretizza né agli uni né agli altri. E questo avviene in un contesto nel quale cresce la domanda di iniziativa e soprattutto emerge la necessità di generalizzare la risposta per non isolare i vari punti della crisi.

Compiti del Movimento dei Consigli
Il movimento dei Consigli è diventato collettore di questa crescente domanda. Anzi, più si allargano i momenti di crisi, più colpisce la manovra del Governo (pensiamo all’effetto sulle tredicesime del mancato recupero del fiscal drag [si chiama così il Prelievo fiscale crescente in conseguenza dell’accresciuto valore nominale della base imponibile determinato dall’inflazione, e quindi dell’aumento delle aliquote d’imposta in presenza di fasce di reddito predeterminate che, pertanto, sono periodicamente modificate, ndr.]) più si dilatano i tempi della risposta sindacale e più si scarica su questo movimento la richiesta di una risposta e più sono deboli, esposte, meno unitarie le situazioni, più pressante è la domanda.

Ci troviamo così in una situazione di estrema difficoltà, stretti tra la nostra gracilità e l’immane domanda che abbiamo suscitato. E’ bene che ci parliamo con grande franchezza ribadendo l’obiettivo vero della nostra iniziativa. Il compito che ci siamo assunti quando abbiamo iniziato è sintetizzato nelle parole d’ordine con le quali abbiamo aperto la manifestazione del 29 ottobre: “Contro la manovra del Governo – Per la democrazia sindacale – Uniti per cambiare”. [il 29 ottobre a Milano e molte altre città d’Italia manifestarono i lavoratori invitati allo sciopero “autoconvocato” dal Movimento dei Consigli; a Milano, per “Repubblica” manifestarono in 50.000, a Bologna in 12.000, lo sciopero era stato sostenuto anche dalla Camera del Lavoro di Milano e dalla CGIL emiliana. Scioperi, cortei, assemblee ci furono in tutto il Paese, in particolare nel Centro-nord. Per una cronaca coeva e parziale potete andare sul web https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/10/30/milano-ribelli-prendono-la-piazza.html?ref=search, ndr].

Per fare questo dobbiamo rispondere in primo luogo alla domanda di continuità che ci viene rivolta da ogni luogo di lavoro. Così come non può bastare un decreto per cancellare lo stato sociale, nello stesso modo un movimento effimero non può pensare di essere all’altezza di questi obiettivi.

Quali sono gli spazi di iniziativa oggi? Anziché restringersi questi si sono allargati: i tempi della legge delega su sanità e previdenza, la finanziaria, il fiscal drag, il nodo occupazione-privatizzazioni, i livelli di contrattazione sono il terreno sul quale si deve esercitare l’iniziativa di chi rappresenta e difende le lavoratrici e i lavoratori di questo Paese. I Consigli unitari nell’assemblea di oggi, in base alla verifica realmente fatta con i propri lavoratori, devono decidere se si sono verificate le condizioni per lo sciopero generale nazionale. Noi riteniamo che queste condizioni non ci siano per due motivi: il primo riguarda lo stato verificato del movimento. Il quadro che abbiamo fatto è veritiero e riguarda la necessità di non far finire in un naufragio quello che insieme abbiamo suscitato: la speranza che la lotta potesse continuare, il bisogno di generalizzare unificando il mondo del lavoro e le sue rappresentanze.

Ma sarebbe inutile affermare che la partita è ancora aperta se poi non si attiva una strategia che definisca con chiarezza il programma di lotte a sostegno del negoziato.

Quindi chiediamo ai Consigli generali confederali CGIL-CISL-UIL, che si riuniranno il 5 dicembre, di lavorare con impegno per definire una strategia e un programma di lotte che dimostrino la volontà di cambiamento e la capacità di ascolto della parola delle lavoratrici e dei lavoratori.

E’ una condizione indispensabile per rimarginare la ferita dell’accordo del 31 luglio, una ferita che può essere curata solo cambiando metodo e contenuti.

Dei contenuti abbiamo già ampiamente parlato nelle due precedenti assemblee, gli obiettivi che vogliamo realizzare sono quelli della nostra piattaforma.

Mi soffermerò quindi sul metodo perché il fatto di avere firmato un accordo di quella portata, fortemente peggiorativo delle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori, coi luoghi di lavoro deserti per le ferie, senza la legittimazione di un mandato, su una piattaforma verticistica elaborata due giorni prima – il 29 luglio – e comunque ignorata dagli stessi estensori due giorni dopo il 31 luglio, ci sembra un fatto di una gravità inaudita.

Ci sono stati anche in passato momenti nei quali il consenso degli interessati agli accordi non è stato preso in considerazione, in occasione di contratti nazionali o aziendali, ma l’accordo del 31 luglio rappresenta un record assoluto di assenza di democrazia. E’ urgente una svolta per evitare che l’assenza di democrazia diventi una costante irreversibile.

Come è potuto accadere un tale sopruso? Trentin ci ha spiegato le ragioni e la situazione di costrizione che l’hanno portato alla firma e alle dimissioni. Non le abbiamo condivise ma le ha dette [In sostanza Trentin motivò la firma con il fatto che si trovò di fronte ad una intesa su cui CISL, UIL e la componente socialista della CGIL avevano già dato via libera e che non se la sentì, per senso di responsabilità, di far saltare il banco ed anche l’unità della stessa CGIL, lasciando aperta la via di un accordo-quadro successivamente. Sarà il famoso accordo del luglio 1993: rimedio peggiore della grandine!, ndr].
D’Antoni e Larizza hanno eluso il confronto ma a Montecatini [nella riunione dei Consigli generali CGIL-CISL-UIL, ndr] hanno difeso sia metodo che contenuti.

Entrambi sostengono che sono legittimati a firmare quello che vogliono in virtù di un mandato dei rispettivi Congressi e che l’adesione è libera; D’Antoni in particolare ha sostenuto con forza che chi dissente è libero di andarsene dalla CISL. Troppo facile!

Migliaia di militanti hanno dedicato la loro vita al sindacato, per una passione ideale e politica, meritano di più dell’esilio dei dissidenti.

Meritano di essere ascoltati e di contare, non di essere condannati.

Questo vale per i militanti di tutti e tre i sindacati. Lo dico anche se le reazioni alla nostra iniziativa sono diversificate.

Anche i padroni, prima dello Statuto dei lavoratori e delle conquiste sindacali che hanno ampliato la democrazia nei luoghi di lavoro, dicevano: “se non ti va, quella è la porta”. Oggi questo non è più possibile, dove il sindacato è forte.

E’ purtroppo ancora possibile nei confronti di milioni di lavoratrici e lavoratori del terziario, dei servizi, dell’artigianato, delle realtà sotto i 15 dipendenti. E’ un aspetto che dobbiamo avere sempre presente per solidarietà di classe. Ma proprio per loro, che non possono far sentire la loro voce nemmeno oggi, perché non hanno diritti sindacali, l’accordo del 31 luglio è ancora più devastante. Non hanno la contrattazione aziendale, non hanno i rapporti di forza, non possono rifarsi in alcun modo.

Ci hanno pensato, i vertici confederali, quando hanno firmato l’accordo del 31 luglio, ma prima ancora quello del 10 dicembre? [L’accordo concertativo del 10 dicembre 1991 impegnava le parti sociali a superare gli automatismi salariali, ecc., ndr] E qui hai voglia, D’Antoni, a rivendicare la legittimazione del Congresso!!

Quando questi lavoratori si iscrivono al sindacato lo fanno per contanti e in clandestinità se no vengono licenziati. Altro che partecipare al Congresso!

E’ vero che poi con i numeri anche di queste tessere si eleggono funzionari a tempo pieno, che però se dissentono sono liberi di andarsene… o di essere commissariati.
Allora non basta il consenso dei Congressi, che peraltro votano documenti che non vengono mai rispettati, vedi difesa della scala mobile.

Gli accordi firmati si applicano a tutti (se si escludono le aree di evasione contrattuale, e anche questo è un problema da tenere presente) e quindi è necessario il consenso di tutti i lavoratori.
Noi vogliamo dare voce a chi non può essere qui oggi e non può parlare mai.

Vogliamo riappropriarci del sindacato!

Vogliamo decidere e contare!

Vogliamo regole certe ed esigibili!

Se l’attuale dirigenza del sindacato confederale dovesse confermare l’impossibilità o la non volontà di avviare autonomamente una seria autoriforma, eserciteremo tutta la pressione di cui saremo capaci, poca o tanta che sia, per cambiare le cose.

In primo luogo, riteniamo che si debba dare una soluzione alla questione della rappresentanza di tipo elettivo per sconfiggere il progetto di sindacato istituzionale con una forte centralizzazione e burocrazia, legittimato dal governo e dalle controparti piuttosto che dal consenso dei rappresentati.

Perché ci sono consigli che non si rinnovano da anni? Perché alcuni invece si rinnovano regolarmente alla scadenza?

Studieremo bene i dati sui questionari compilati oggi per capire se sono possibili letture di categoria e di territorio, ma pensiamo che chi non si sottopone alla verifica democratica periodica non lo faccia per cattiva volontà, ma per rispetto dei veti imposti dall’esterno dei luoghi di lavoro da burocrati insensibili alla democrazia.

E se provassimo a trasgredire?

Quale altro termine trovare se non burocrate per chi impedisce ai lavoratori ed alle lavoratrici di eleggere rapidamente la loro rappresentanza da oltre 10 anni?
Ma perché avviene?
Per due fattori intrecciati:
- il diritto di veto con minaccia di rompere l’unità;
- il monopolio della rappresentanza esterna al luogo di lavoro che permette ai dirigenti sindacali di darti o meno l’investitura, o addirittura di toglierti la copertura come minaccia di fare la CISL in varie parti d’Italia a chi aderisce al movimento.

D’Antoni ha ironizzato su 50 delegati CISL presenti al Nuovo. Erano di più. Ma non è questo il problema, caro D’Antoni, non sono ostaggi della CGIL o rarità da ostentare.
Sono menti libere.

Senza pressioni e ricatti ci potremo ricontare.

L’articolo 19 dello Statuto, quello sui sindacati maggiormente rappresentativi, non era nato contro i delegati per ricattarli sulla copertura! Era nato per evitare i sindacati filopadronali o un proliferare di sindacatini.

E’ l’uso distorto che ne viene fatto che fa sì che oggi venga messo in discussione. Una discussione che va dalla riscrittura dell’articolo 19 fino all’abrogazione referendiaria pensata da alcune forze politiche e non solo politiche.

Il movimento dei Consigli unitari ritiene necessaria una legge che permetta di eleggere i propri rappresentanti in tutti i luoghi di lavoro pubblici e privati garantendo il pluralismo.
Riteniamo necessario quindi avviare un confronto con i parlamentari presentatori delle tre proposte di legge, con i giuristi, con gli avvocati per esaminare in modo approfondito le proposte da un lato e dall’altro per esporre il nostro punto di vista che è il seguente:
- siamo contro la frammentazione e il proliferare di sindacatini corporativi o di comodo ai quali i padroni potrebbero opportunisticamente rivolgersi all’interno dei luoghi di lavoro [venendo all’oggi, avete presente i contratti CONFSAL commercio?, ndr]
- chiediamo di riconsegnare alle lavoratrici e ai lavoratori la certezza del diritto di decidere e contare sugli argomenti che li riguardano e di poter eleggere rappresentanze unitarie scegliendo i rappresentanti
- riaffermiano la necessità di poter costituire un unico soggetto contrattuale nei luoghi di lavoro
- vogliamo un sindacato confederale che abbia come punti fermi la democrazia, la solidarietà, i diritti della classe lavoratrice, l’unità, valori da realizzare e difendere col consenso che nasce dalla verifica e dal confronto di massa.

Per realizzare gli obiettivi fin qui elencati abbiamo bisogno di continuare ad esistere come movimento, abbiamo bisogno di crescere, abbiamo bisogno che le nostre iniziative di lotta vedano di nuovo come protagonisti decine e decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici e privati, di pensionate e pensionati, di disoccupate e disoccupati, di studenti e studentesse in ogni parte del Paese dove riusciamo ad esserci e a farci contare, per contare esattamente per quello che rappresentiamo, né più e né meno.

Proponiamo al dibattito una settimana di mobilitazione e una giornata nazionale di lotta venerdì 11 dicembre.

La scadenza delle leggi delega su sanità e previdenza, il nodo del fisco che esploderà nelle nostre tredicesime del 1992, lo scontro con la Confindustria sui livelli di contrattazione, il drammatizzarsi della crisi occupazionale aggravata dal processo di privatizzazione indiscriminata, impongono una generalizzazione della mobilitazione che unisca su questi obiettivi il mondo del lavoro con strumenti di lotta adeguati a questo livello di scontro.

Lo sciopero generale nazionale diventa in questo quadro un appuntamento che non può essere eluso da tutto il movimento sindacale. Non come fine in sé o conclusione di un percorso di mobilitazione, ma come strumento di risposta generale e politica che unifica e generalizza la grande mobilitazione che in questi mesi è cresciuta ed ha tenuto e deve continuare a crescere e a tenere.
Una cosa è certa: puntiamo ad un successo superiore allo sciopero generalizzato del 29 ottobre 1992.

 

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