Trony: cronaca di un fallimento annunciato - di Carlo Cerliani

La vicenda di Trony è complicata già a partire dall’insegna. Il marchio infatti è proprietà del gruppo GRE (Grossisti Riuniti Elettrodomestici) composto da 15 società indipendenti, tutte italiane, riunitesi sotto una unica insegna. Oggi però il gruppo Trony subisce una perdita imponente: la DPS Group, uno dei due maggiori soci all’interno del GRE, ha dichiarato fallimento, trascinando con sé un quinto della rete di vendita dell’intero gruppo e imprigionando in un limbo oltre 450 lavoratori in tutta Italia, dalla Lombardia alla Puglia, tutto mentre il resto del gruppo fa finta di niente e, anzi, dichiara di volersi espandere.

Per capire come si è arrivati al fallimento, bisogna però ripercorrere la storia di DPS e dei suoi proprietari, la famiglia Piccinno. Una storia fatta di operazioni aziendali spregiudicate, ragioni sociali differenti, inadeguatezza al mercato che cambia e scelte sbagliate il cui conto è stato sempre presentato ai lavoratori.

Nel 2013 DPS, che operava nel settore dell’elettronica di consumo già da diversi anni, fa il grande passo e incorpora nella sua rete i negozi di Darty, competitor francese che nel frattempo se ne stava andando dall’Italia e pochi mesi dopo, attraverso FRC, una controllata al 100% creata appositamente per l’operazione, acquisisce anche i punti vendita Fnac, altra società francese che batteva in ritirata dal settore italiano.

Le due entità, DPS e FRC, proprietà della medesima famiglia e distinte solo sulla carta, arrivano a contare circa 70 punti vendita e un migliaio di dipendenti su tutto il territorio nazionale.
L’azienda però da subito segnali di non riuscire a gestire la sua nuova dimensione e la gestione familiare dei Piccinno stenta ad adattarsi alle dimensioni del progetto.

Priva di una strategia chiara del management, DPS affronta la crisi senza investimenti e cerca di tagliare i costi, riducendo progressivamente i propri punti vendita e conseguentemente, il personale. Negli anni, l’azienda usufruisce di ogni tipo di ammortizzatore sociale, senza mai riuscire ad interrompere quella che presto appare come una inesorabile parabola discendente: le procedure di licenziamento collettivo diventano praticamente un appuntamento annuale.

La contrazione è tale che il gruppo (DPS + FRC), arriva alla fine del 2017 con soli 44 negozi e poco più di 600 addetti e anche per chi resta la situazione si fa sempre più complicata.
A seguito dell’ennesima dichiarazione di esuberi, i lavoratori si trovano costretti a doversi ridurre in maniera importante l’orario di lavoro per mantenere il posto. In alcune regioni questo avviene in seguito ad un atteggiamento aziendale intimidatorio e in totale disprezzo del confronto con il sindacato. Dove il fronte sindacale è sufficientemente forte, come ad esempio a Milano, si riesce a contrastare tale atteggiamento e si ottiene una riduzione temporanea a 36 per due anni.

Purtroppo l’azienda collasserà molto prima.

Per togliere i negozi dall’enorme debito che DPS ha accumulato negli anni nei confronti dei fornitori, i Piccinno mettono sul tavolo la terza società: Vertex, un soggetto nuovo che sarebbe dovuto servire a recuperare credibilità agli occhi del sistema del credito e ad un non meglio specificato rilancio dei negozi.
È proprio con il passaggio de i punti vendita al nuovo soggetto che il piano mostra tutte le sue fragilità:
- Vertex è di proprietà della stessa famiglia Piccinno, che aveva accumulato svariati milioni di debiti coi fornitori;
- Vertex è un’azienda nuova che passa da 0 a 40 punti vendita;
- Vertex ha un capitale sociale di 25.000 €.

Come risultato, il sistema dei fornitori non da credito al progetto e la situazione precipita.

La merce non arriva, i negozi si svuotano e conseguentemente i fatturati crollano. Si affronta l’appuntamento del Natale in maniera surreale, con gli spot delle promozioni del gruppo Trony diffusi dai media, mentre nei negozi DPS/Vertex/FRC gli scaffali sono vuoti e questo espone i lavoratori ad un altro fronte, quello del malumore e talvolta della rabbia dei clienti che difficilmente escono dalla logica del “ma l’ho visto in TV” o del “allora siete dei truffatori”.

FRC cessa l’attività, in 105 restano senza lavoro, mentre Vertex naufraga ancora prima di partire e restituisce i negozi a DPS, ma di fatto sono i Piccinno che se li passano da una mano all’altra e che, in un ultimo disperato tentativo, aprono un concordato preventivo, nella speranza di saldare i debiti cedendo i punti vendita ad un competitor, ma è fuori tempo massimo e il fallimento è inevitabile.

Vittime di questo gioco delle tre carte, i lavoratori percepiscono solo il 20% dello stipendio di gennaio. A febbraio neanche quello.

Il 15 marzo viene ufficializzato il fallimento e le serrande dei negozi si abbassano definitivamente. I lavoratori di DPS però sono ancora dipendenti di un’azienda fallita, “quiescenti” nel linguaggio del tribunale fallimentare, il che vuol dire che, pur non percependo alcuno stipendio, per loro non c’è nessun ammortizzatore sociale.

Ora i negozi sono stati messi all’asta e quel rapporto di lavoro ancora in essere è l’unico filo che lega i lavoratori a degli ipotetici acquirenti che dovessero ritirare almeno alcuni dei punti vendita. Un’alternativa per nulla scontata e che richiederebbe un’intensa trattativa tra le OO.SS. e i nuovi interlocutori, ma che molti degli oltre 450 lavoratori investiti dal fallimento di DPS non si sentono di ignorare.

La storia di DPS/Trony ci racconta un settore in crisi, quello dell’elettronica di consumo, che da una parte accusa la concorrenza spietata dell’online e dall’altra paga la sostanziale applicazione di un modello di business anni ’90 a un mercato ormai profondamente trasformato. DPS/Trony vince il triste primato di prima azienda ad andare a sbattere contro questa evidenza, a causa soprattutto di un pessimo esempio di imprenditoria italiana, ma il problema è reale e riguarda tutti, la crisi di Euronics e le chiusure annunciate da Mediaworld ne sono una conferma.

La difficile situazione che i lavoratori di Trony si trovano a subire, solleva però un’altra questione: la totale mancanza nel settore del commercio di ammortizzatori sociali adatti ad affrontare un simile momento.

Siamo tutti d’accordo che il retail nei prossimi anni subirà dei cambiamenti radicali, ma cambiamento non è sinonimo di miglioramento e altre aziende potrebbero essere travolte da questo fenomeno radicale. Di fronte a questo rischio, i lavoratori del settore sono completamente privi di protezione sociale e pochissimi, oltre alla nostra organizzazione, sembrano essere consci di questo rischio che incombe su centinaia di lavoratori, ennesimo sintomo della perdurante assenza del tema lavoro dal radar del dibattito pubblico, al di là dei vuoti slogan da eterna campagna elettorale che fanno solo rumore e non propongono soluzioni. Soluzioni che sembrano interessare solo ai lavoratori ed a un sindacato come il nostro, che anche in un contesto così difficile, si sforza di rappresentarli al meglio.


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