Renzismo, malattia senile del berlusconismo - di Frida Nacinovich

Dopo vent’anni di Berlusconi dieci anni di Renzi? La politica italiana resta sempre uguale a se stessa. In cerca di un capopopolo, un leader, un cavaliere bianco, un profeta. Di un arcitaliano pronto a dettare l’agenda del paese, che siano le tasse da tagliare, i vecchi da rottamare, i comunisti da cancellare, gli smartphone da imporre come status symbol di un paese che non è per vecchi. Di un Berlusconi o di un Renzi deciso a riscrivere le regole della Repubblica. L’eterno ritorno: dieci anni fa il paese andava alle urne per bocciare il referendum costituzionale di Berlusconi Fini Bossi, dieci anni dopo il paese discute del referendum costituzionale di Renzi Alfano Verdini, in attesa del voto di novembre. Le stagioni si susseguono, l’estate sta per cedere il passo all’autunno. La politica italiana resta ferma, immobile, uguale a se stessa. Come un albero di Natale, un sempreverde. Dopo il ventennio il decennio.

Eppure la storia non si ripete mai allo stesso modo, e la tragedia (politica) di ieri diventa la farsa di oggi. Per giunta di cattivo gusto: come giudicare diversamente la Lega di Matteo Salvini, che usa il disastro del terremoto per ripetere ancora una volta - la milionesima - che si sprecano i soldi per i migranti invece di aiutare gli italiani? Ma Salvini è una rondine che non fa primavera. Meglio, un avvoltoio che resta isolato, mentre da Lampedusa alla vetta d’Italia, di italiani brava gente ce ne sono ancora tanti, si mobilitano in soccorso delle popolazioni del reatino e del piceno devastate dalle scosse telluriche.

Che paradosso, nel ventennio berlusconiano la sinistra si è esercitata nell’antiberlusconismo. Aspettando Godot, un altro leader che potesse rivaleggiare per carisma con il re delle televisioni. Missione impossibile: anche quando il competitor riusciva a stento a farcela (Prodi), l’ammutinamento interno era come fuoco che covava sotto la cenere. Sul tavolo del black jack politico - come in quello del casinò - vinceva sempre il banco. Quello di Arcore. Perché alla fine, nel gioco di specchi della politica di casa nostra, basta un primattore a riempire la scena. L’altro, il deuteragonista, è solo pallida ombra.

Battezzato in un ormai celebre pranzo a villa San Martino quando era sindaco della città del giglio, l’ambizioso ragazzo di Rignano sull’Arno oggi vuole segnare la vita italiana dei prossimi anni. Fino al 2018 non si vota, se non per i referendum, ha sottolineato prima di godersi le vacanze. Per quell’epoca si sarà alleato con lo sbrindellato centrodestra orfano del cavaliere e offrirà un mignolo a quel pezzettino di sinistra, assai ingigantito dai media, che proprio non si rassegna alla fine del Pci-Pds-Ds. E sì che sono passati dieci anni dalla nascita del Pd, fondato con mano ferma da uno che disse di non essere mai stato comunista nonostante la sua collezione di tessere del partito. Guidato, oggi, da uno cresciuto a pane e parrocchia. Non siamo morti democristiani, moriremo berlusconizzati e renziani. E ancora un’altra estate arriverà.


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