Cgil, dopo-congresso: da che cosa cominciare - di Marco Prina

La sconfortante conclusione del congresso XVII della Cgil ci ha consegnato l’immagine di un’organizzazione paralizzata dalle divisioni interne; fratture che partono dal gruppo dirigente per diffondersi al corpo dei funzionari, le cui ragioni sono sia di natura politica che personale, legate ad antichi dissapori incrociate, comunque in grado di produrre un vuoto significativo di direzione politica.
La geografia delle spaccature emerse a Rimini, percorre non solo la linea fra categorie e confederazione (su chi rappresenta e come la generalità degli interessi del lavoro), ma si dipana fra diverse regioni e CdL, riguardando i diversi pesi politici riflessi nei meccanismi decisionali; parte certamente dal TU della rappresentanza per finire più strategicamente sul diverso posizionamento rispetto al governo Renzi.
Tali diversità, spesso non chiare, sottotraccia, hanno determinato un quadro interno poco edificante e incomprensibile alla maggioranza degli iscritti. La novità risiede questa volta nella mancanza di una maggioranza sicura e certa, venendo meno le premesse più o meno rasserenanti del inizio della fase congressuale di sei mesi fa. Si prospetta un’organizzazione sottoposta per i prossimi quattro anni a continue tensioni e guerre intestine, balcanizzata, propensa all’immobilismo, sempre più carente di una linea chiara e decisa, soprattutto condivisa.
Tali difficoltà di navigazione sono le meno adatte nell’attuale fase di totale controffensiva del capitale contro il lavoro a livello internazionale, europeo e nazionale.
Le evidenti difficoltà del gruppo dirigente, sono anche le difficoltà quotidiane di tutto il corpo dell’organizzazione, intrisa da vent’anni di pratiche concertative e del tutto incapace di trovare e sperimentare nuove strade.
Questo semplice dato dovrebbe spingerci a chiederci se esiste la possibilità di un rinnovamento della Cgil in termini più classisti, data oggi l’assenza di un posizionamento dell’organizzazione su un terreno maggiormente oppositivo a questo quadro politico sempre più incline ad accelerare gli attacchi di stampo liberista contro il lavoro organizzato e alle sue conquiste.
Di conseguenza se ha senso o meno rilanciare la progettualità e la visione di una sinistra sindacale, o se questa Cgil è il migliore dei mondi possibili all’interno dell’attuale cornice di rapporti di forza. Va da sé che lo scioglimento del collettivo nazionale e locale può avvenire solo nell’accoglienza della seconda ipotesi o per un più banale opportunismo di piccolo cabotaggio individuale.
Ovviamente chi scrive crede ancora nella prima ipotesi, non per fede ma per semplice valutazione delle insufficienze politiche di questa organizzazione, che rimane certamente la maggiore organizzazione del mondo salariato nel nostro paese ma anche quella percorsa da maggiori contraddizioni fra le diverse anime che innervano le maggiori tradizioni di pensiero interne al movimento operaio riconducibili ad un riformismo di destra e a uno di sinistra, uno disponibile al compromesso sull’onda del pragmatismo, l’altro più irretito sulla difesa di alcuni diritti o principi in nome di una battaglia più generale, a cui si aggiunge una terza componente massimalista intrisa di sani principi e di sostanziale immobilismo.
Dentro questa dimensione quale debba essere l’azione di una nuova sinistra sindacale può derivare semplicemente dal superamento di una propria autoreferenzialità nostalgica, dalla capacità di tornare a reinsediarsi nei luoghi di lavoro, dalla capacità di saper rileggere la composizione di classe, cogliendo i problemi che derivano dalla nuova fase di scontro all’interno dei processi produttivi e nella società.
Ripartire dai luoghi di lavoro vuol dire attivare una nuova democrazia, ovvero un maggiore protagonismo dei lavoratori, a partire dai loro bisogni unitamente a un maggior intervento di orientamento, di stimolo alla crescita collettiva attraverso forme di maggior partecipazione e maggiore autonomia decisionale e di comportamenti. Puntando sui delegati quale fulcro del rinnovamento. Favorendone il protagonismo e la partecipazione, aprendone gli spazi di maggiore autorganizzazione e comunicazione intercategoriale dentro l’organizzazione. Dare gli stimoli perché questo corpo vivo abbia maggiori spazi e autonomia dentro la Cgil, al fine di rompere vecchi schemi, burocratismi e verticismi tipici di questa organizzazione tardo-novecentesca, che se non farà nulla per rinnovarsi, nel proprio modo di muoversi, vivere e agire, rischia solamente la semplice paralisi quale premessa della propria estinzione quale organismo vivo di trasformazione radicale di questo paese.
E’ indubbio che oggi il nostro dibattito dovrebbe essere incentrato sui punti, sugli obiettivi di fase sui quali tentare di riorganizzare le resistenze di classe oggi completamente abbandonate e lasciate in balia degli eventi.
(prima parte)


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