Lavoro a chiamata: le conseguenze per la previdenza - di Fulvio Rubino

Reds n 10_ 2013 Hits: 2380

Il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi, oltre che sull’importo della retribuzione corrisposta, sull’eventuale effettivo ammontare della indennità di disponibilità (sull’indennità di disponibilità, in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo, i contributi vengono versati per il loro effettivo ammontare). Quindi, l’indennità di anzianità concorre alla formazione dell’anzianità contributiva utile ai fini del diritto e della misura, nonché della retribuzione imponibile per il calcolo della prestazione pensionistica o, nel sistema contributivo, alla determinazione del montante contributivo individuale.
Il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, per tutti gli istituti di cui ha diritto, dalla retribuzione globale alle ferie e ai trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, maternità, congedi parentali.
E’ importante ricordare che: per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati né matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l’indennità di disponibilità; i periodi coperti da contribuzione obbligatoria sono soggetti al vincolo di copertura contributiva minima (retribuzione minima settimanale di cui all’art. 7, comma 1 della legge n. 638/83, così come modificato dall’art. 1, comma 2 della legge n.389/89) e se risultano coperti parzialmente allora i lavoratori possono, a domanda, versare la contribuzione mancante per coprire tutto il periodo ai fini dell’assicurazione per la Invalidità, la Vecchiaia e i Superstiti (IVS)
Benché, per i periodi lavorati il lavoratore intermittente non dovrebbe ricevere un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, l’esiguità delle retribuzioni nel lavoro ad intermittenza sono devastanti in materia pensionistica, ancor più dopo che l’art.24 del D.L. 201/2011, convertito in Legge 214/2011, meglio conosciuta come “riforma Monti-Fornero”, ha esteso a tutti i lavoratori, a partire dal 01.01.2012, il sistema contributivo definito dalla L.335/1995.
In nome di una equità attuariale fra versamenti e prestazioni, in nome di quel principio che bisogna ricevere in proporzione a quanto si è dato, si è introdotto un sistema che non prevede espliciti elementi redistributivi intergenerazionali ed intra-generazionali: in poche parole si è introdotto un sistema efficace nel garantire la sostenibilità finanziaria ma che manca di qualsiasi strumento che garantisca pensioni adeguate e consenta una redistribuzione solidaristica, trasformando, di fatto, il problema della sostenibilità finanziaria in sostenibilità sociale (anzi, possiamo dimostrare che le nuove norme favoriscono chi “ha di più” e svantaggiano chi “ha meno”).
Tali scelte e metodologie di lavoro hanno riprodotto un sistema che ha individualizzato la previdenza, legandolo esclusivamente alla valorizzazione della propria capacità di produrre reddito: è palese, dunque, che chi produce poco reddito, come i lavoratori ad intermittenza, nel futuro riceverà povertà.
Eppure dovremmo ricordare bene uno dei presupposti dell’economia keynesiana che il perseguimento dell’utile individuale non coincide con il perseguimento dell’utile collettivo.

(La prima parte del servizio di Fulvio Rubino a proposito del lavoro a chiamata è stata pubblicata sul numero 7 di ‘Reds’)

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