Il vento freddo d'autunno

Negli anni ’70 l’autunno era inevitabilmente caldo. La notizia era sparata su tutti i giornali. La dichiarazione era fatta in ogni occasione, assemblea, comizio. Dire che l’autunno sarebbe stato caldo era  promessa di agitazioni e lotte durissime con obbiettivi rivendicativi di grande impatto. Il caldo era riferito, infatti, all’intensità e al coinvolgimento, ma anche al fuoco nei bidoni dei picchetti davanti ai cancelli e anche a qualche altra fonte di calore sviluppata nel corso di manifestazioni talvolta molto vivaci… Nel corso del tempo l’autunno caldo è diventata una frase di rito e ha perso il suo significato. Qualcuno la sta riportando in auge per descrivere quello che ci attende nei prossimi mesi. Permettetemi di andare controcorrente.
L’autunno che ci attende non sarà caldo. Sarà freddissimo. Sarà l’autunno cupo della crisi. L’ottimismo di facciata del governo Monti, in questo, e non solo in questo, altrettanto berlusconiano del precedente, non trae in inganno.
In questo mese di settembre, aziende che hanno chiuso per le ferie estive non riapriranno i battenti.
Entro dicembre scadranno i termini della maggior parte delle procedure di cassa integrazione ancora in essere. Le proroghe, quando ci saranno, saranno concesse in misura inferiore e per un tempo più ridotto. Tante lavoratrici e lavoratori in mobilità si troveranno senza l’assegno. La revisione della spesa pubblica (la ‘spending review’) taglierà ulteriormente il numero delle ore lavorate e degli addetti negli appalti dei servizi, produrrà la liquidazione di società di proprietà degli enti pubblici (quelle società per azioni che in un orribile linguaggio angloburocratico sono chiamate “in house”) con licenziamenti e precarizzazione ulteriore. La qualità dei servizi, mense trasporti, asili, se e quando saranno disponibili, peggiorerà rapidamente. Le prestazioni sanitarie saranno sottoposte ad oneri e balzelli. La pressione fiscale sul lavoro continuerà a crescere. La maggioranza dei lavoratori dipendenti avranno difficoltà a ricorrere al microcredito.
Questo è il quadro della stagione dei rinnovi contrattuali. Cosa ci vorrebbe lo sappiamo: meno precarietà, salari migliori, pieno riconoscimento dei diritti, confronto di merito sulle prospettive delle aziende per affrontare la crisi (quello che in linguaggio sindacale si chiama “confronto sul piano industriale”). Ma i padroni presenteranno le loro contropiattaforme: aumento degli orari, senza aumenti salariali, più flessibilità in entrata e in uscita, meccanismi premiali a discrezione.
Dovremo fare della stagione contrattuale – a partire dalla definizione delle piattaforme – un momento per ricostruire il rapporto del sindacato con i lavoratori: prima ascoltando e poi elaborando. E dovremo evitare la trappola di essere costretti a scegliere tra la resa e la pura testimonianza. Non sarà facile. Non è facile.
Il metro principale di valutazione del nostro agire sarà il livello di unità e di coesione che sapremo costruire tra i lavoratori, a partire dal rafforzamento della FILCAMS come radicamento e autorevolezza. Quella che indico non è una scappatoia retorica, ma una valorizzazione delle nostre radici: il bene supremo dell’azione sindacale è la coesione dei lavoratori, il loro riconoscersi come classe per sé.   


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