Due referendum per il lavoro: voucher e appalti - di Nina Carbone

Entro giugno, a meno che le camere non siano sciolte, si andrà a votare su due quesiti referendari sul lavoro. Sono due referendum “contro” la precarietà e il lavoro sottopagato e sono il risultato di una più vasta iniziativa promossa dalla CGIL per sostenere una nuova Carta dei diritti del lavoro che offra tutele, garanzie e certezze di diritto a tutto il vasto e articolato mondo del lavoro anche nelle sue “nuove” articolazioni

Il 1° luglio la CGIL ha depositato in Corte di Cassazione 3,3 milioni di firme per proporre tre Referendum abrogativi a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare “la Carta dei diritti Universali del Lavoro”. L’11 gennaio la Consulta ha dichiarato inammissibile il quesito referendario per il ripristino dell’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già modificato nel 2012 dalla legge Fornero e definitivamente superato dal Job’s Act del governo Renzi: il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa viene sostituito con un indennizzo economico, per i contratti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015. In due anni i licenziamenti senza giusta causa sono aumentati del 31%: effetto Job’s Act! La decisione della Consulta è sembrata molto una bocciatura “politica”. Di fatto ha accolto la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale il quesito era “propositivo e manipolativo”, perché estendeva il diritto al reintegro nel posto di lavoro alle aziende con un numero di lavoratori tra 5 e 15. Altre volte sono stati ammessi quesiti referendari che in parte modificavano la normativa precedente ma le indiscrezioni sulla probabile decisione della Consulta circolavano già qualche giorno dopo il 4 dicembre.

L’Avvocatura dello Stato ha cercato di bloccare gli altri due quesiti, prospettando un “vuoto normativo” e una “incertezza normativa”, ma la Consulta ha dichiarato la loro ammissibilità e quindi in primavera si dovrebbe andare al voro referendario. “Si dovrebbe” perché l’n-esima bocciatura di una riforma “la più bella del mondo”, potrebbe portare alle elezioni politiche. In effetti è quanto ha sperato il Ministro Poletti fin da subito: con le elezioni si evitano i referendum e quindi una possibile nuova sconfitta, anche se la bocciatura del quesito sull’art. 18 ha fatto tirare un grosso respiro di sollievo a Ministri e Governo che, all’improvviso, si sono ritrovati con “Il Lavoro” al centro del dibattito. Degli altri due quesiti uno propone l’abolizione dei voucher (i buoni lavoro). Introdotti nel 2003 dalla L. n. 273 (erroneamente nota come Legge Biagi) per retribuire il “lavoro occasionale” come le ripetizioni o le pulizie. Questo sistema avrebbe dovuto fare emergere il lavoro sommerso ma di fatto è rimasto inapplicato fino al 2008, quando viene esteso al mondo agricolo (per la vendemmia). Negli anni si allarga la platea sia dei percettori che dei settori coinvolti. Nel 2009 anche gli Enti Locali rientrano nei soggetti che possono utilizzare i voucher. Tra il 2010 e il 2012 crescono anche i soggetti che possono vendere i buoni e il canale preferito diventa il tabaccaio. Con la riforma Fornero si assiste a una liberalizzazione dei buoni lavoro che vengono estesi a tutti i settori produttivi per arrivare al 2013 quando scompare l’accezione “di natura meramente occasionale”. Rimane solo il limite economico a definirlo ancora “lavoro accessorio”: la legge Fornero fissa il tetto max a € 5000 all’anno e € 2000 per singolo committente. E’ vero quindi che i voucher non nascono col Job’s Act, ma è anche vero che questo non solo ha confermato il venire meno dell’occasionalità e l’utilizzo dei buoni per qualsiasi tipo di attività, ma ha innalzato il tetto max a € 7000, dando un segnale preciso: rendere il mercato del lavoro sempre più precario e senza regole. Il lavoro non diventa “meno sommerso” ma “più precario”. L’uso dei voucher aumenta in maniera spropositata, soprattutto nel commercio e nei servizi: sono stati venduti milioni di voucher del valore nominale di € 10,00, di cui € 7,50 vanno al lavoratore- Assicurato all’INAIL non ha però diritto ad alcuna prestazione a sostegno del reddito (dalla malattia all’indennità di disoccupazione). Anche nella provincia di Piacenza è stato un vero boom: dal 2014 al 2016 si è avuto un incremento del 92% di buoni, fino ad arrivare a quasi 10 milioni di euro pagati in voucher. Di fatto un esercito di precari senza identità. E non è vero che si creerebbe un vuoto normativo: la CGIL nella proposta di legge che ha presentato, chiede un nuovo strumento contrattuale e definisce bene chi potrebbe svolgere lavori occasionali: studenti, inoccupati, pensionati, disoccupati che non percepiscono alcuna forma di sostegno, il singolo lavoratore presso lo stesso datore di lavoro per non più di 40 giorni con compenso non superiore a € 2500. Ma il governo, con in testa il Ministero Poletti preferisce sperare nelle elezioni piuttosto che confrontarsi.

Con il referendum sugli appalti si chiede la reintroduzione della piena responsabilità solidale tra appaltatore e appaltante. Nella giungla degli appalti e dei sub-appalti, le discriminazioni nei rapporti di lavoro sono enormi. Se l’azienda cresce, cresce grazie al lavoro dei soggetti che contribuiscono a tale crescita direttamente o indirettamente. E’ quindi evidente che non può e non deve esserci differenza di trattamento tra i lavoratori occupati negli appalti e sub appalti, coinvolti nei processi di esternalizzazione. Solo con la responsabilità solidale è possibile assicurare la tutela dell’occupazione dei lavoratori a prescindere dal loro rapporto con il datore di lavoro.

Sono due referendum abrogativi e quindi, perché siano validi, deve partecipare al voto il 50% + 1 degli aventi diritto. Al referendum di dicembre la partecipazione è stata straordinaria. Ripetiamola e con due “Sì” ridiamo libertà e dignità al lavoro.


[L’articolo sarà pubblicato prossimamente anche su “Fiorenzuola in Comune” periodico di informazione di Sinistra per Fiorenzuola]

Unicoop Tirreno, la coop sei tu chi può licenziare di più? - di Frida Nacinovich

Sindacati e lavoratori hanno già annunciato un pacchetto di scioperi. “Stiamo ancora discutendo come organizzare la nostra protesta. Le assemblee sono partecipatissime”


Hanno fatto il passo più lungo della gamba, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: almeno seicento esuberi, la chiusura di tredici negozi, la cessione di altri sei, il recesso del contratto integrativo aziendale. La coop sei tu, chi può tagliare di più, parafrasando la fortunata campagna pubblicitaria. Unicoop Tirreno è la pecora nera nel gregge Coop. Che la storica cooperativa, nata nel 1971 a Piombino come spaccio dell’Ilva, avesse problemi di galleggiamento era cosa nota, ma che rischiasse di affondare come il Titanic, in pochi se lo sarebbero aspettato. Lavoratori e delegati sindacali si sono trovati sul tavolo un piano industriale drammatico, una cura da cavallo. Ma il cavallo (cioè i lavoratori) non ha alcuna intenzione di subirla. I sindacati precisano che degli oltre 600 esuberi (indicati nel piano come “481 full time equivalenti”), 160 saranno alla sede centrale di Vignale-Riotorto, 95 nella rete di vendita fra Toscana e Lazio (oltre a due negozi in Campania) e gli altri fra i tredici negozi chiusi e i sei ceduti (ancora non è chiaro a chi). Secondo stime sindacali, Unicoop Tirreno ha salutato il 2016 con un rosso di circa 25milioni: una voragine al termine di sei annate sempre chiuse con il segno meno. E tutto questo nonostante il soccorso del sistema Coop, sotto forma di 170 milioni per rafforzare il patrimonio. Come effetto collaterale della crisi di Unicoop Tirreno, dovrà essere drasticamente ridotta perfino l’attività ‘para-bancaria’ di gestione del risparmio dei soci: secondo le recenti disposizioni di Bankitalia, per rispettare il rapporto con il patrimonio, i depositi dovranno scendere da 930 a 500 milioni di euro entro la fine del 2019. Pioggia sul bagnato. “481 full time equivalenti, in un contesto lavorativo in cui la maggior parte degli addetti è part time, può significare fino a 600 persone che rimarranno senza lavoro”, sottolinea Paolo Lorenzi. Lui conosce l’argomento, delegato sindacale per la Filcams Cgil, lavora al punto vendita Unicoop Tirreno di Viareggio - forte di sessanta addetti - dal 2009. Prima ancora, era il 2003, prestava servizio all’Ipercoop di Livorno. Un delegato esperto, testimone diretto della parabola della cooperativa di consumo piombinese. “Si sapeva che le cose non andavano benissimo, ma la cifra annunciata degli esuberi è stato un fulmine a ciel sereno”. Già seicento sono tantissimi, e il conto non si ferma qui. Quanti sono gli stagionali che nel periodo estivo venivano chiamati anno dopo anno presso i negozi delle località turistiche? Quanti sono i lavoratori interinali che venivano utilizzati per coprire i picchi lavorativi festivi? Tutte persone che speravano, e sono state illuse per anni, di aver trovato un approdo sicuro tra le braccia della grande cooperativa.

Sindacati e lavoratori hanno già annunciato un pacchetto di scioperi. “Stiamo ancora discutendo come organizzare la nostra protesta. Le assemblee sono partecipatissime”, racconta Lorenzi. “Ai licenziamenti si aggiunge la cancellazione del contratto integrativo. Una cosa del genere non era mai successa. Abbiamo paura che quanto sta accadendo a noi possa fare da testa di ponte per le altre aziende della galassia Coop”. Fra queste naturalmente c’è chi naviga in acque decisamente più tranquille come, ad esempio, Unicoop Firenze.

Unicoop Tirreno è intimamente legata alla Costa toscana, lì dove è nata nel secondo dopoguerra (val di Cornia) e si è sviluppata (province di Livorno, Grosseto, Lucca, Massa Carrara). Le cifre parlano chiaro: 116 tagli di posti full time equivalenti (fte) arriveranno dalle cessioni di 8 negozi, 110 dalle chiusure di 13 negozi, 160 dal personale della sede di Riotorto e 95 ulteriori esuberi nella rete vendita. Circa il 10% di tutta la forza lavoro della cooperativa. “Il piano industriale avrà un impatto negativo su tutto il territorio. I sindacati non hanno alcuna intenzione di avallare i tagli al personale. Non è possibile che siano solo i lavoratori a pagare anni e anni di strategie commerciali sbagliate”, dice ancora Lorenzi. “Gran parte di noi ha investito nell’azienda attraverso il prestito sociale, la crisi ci colpisce ancora di più perché siamo parte di questa azienda”. Lorenzi spiega quanto il lavoro degli addetti coop nei punti vendita sia molto ‘fisico’. Dal carico e scarico delle merci, all’uso delle attrezzature per i reparti gastronomia, pescheria, macelleria (affettatrici, coltelli), fino si turni di cassa che si susseguono senza soluzione di continuità. E il servizio ai clienti va dato, non ci possono essere buchi negli organici. “Questo piano è impraticabile. Il nostro no è motivato e deciso, siamo compatti”.

[Lo stesso articolo viene pubblicato in contemporanea su "sinistra sindacale", 2/2017]

La discussione è necessaria - di Andrea Montagni

Strategia, contenuti e prassi contrattuale, democrazia e pluralismo

La scelta di dare priorità alla campagna referendaria e alla discussione in tutto il paese dei contenuti della Carta dei diritti del lavoro è una scelta giusta e interamente condivisibile perché risponde in modo autorevole e dinamico ad una domanda di dignità, di cambiamento e di ascolto che è presente tra tutti i settori del mondo del lavoro, di vecchia e nuova generazione, strutturato e precario.

Circola sempre più insistente la voce che il Congresso della CGIL “slitterà” di qualche mese rispetto alla scadenza naturale del luglio 2018. La voce resta voce, perché nessuno ha deliberato ad oggi niente in proposito. Ma il fatto che in nessun bilancio preventivo per il 2017 siano stati previsti gli accantonamenti per le spese congressuali è un chiaro indizio che questa decisione appare scontata. Se slitta il congresso confederale, ça va sans dire, slittano anche i congressi di categoria, compreso quello della Filcams. D’altro canto il congresso a scadenza naturale coinciderebbe, se la legislatura dovesse durare, con la campagna elettorale e la sua fase preparatoria che in CGIL comincia sempre con molti mesi di anticipo con la campagna referendaria sul lavoro e/o con le elezioni anticipate.

Pure il rinvio del congresso porta con sé anche un rischio, rischio in parte voluto dal gruppo dirigente attuale nel suo complesso, quello di definire fuori dal dibattito congressuale e come fatto meramente burocratico e interno allo stesso gruppo dirigente una ricomposizione del gruppo dirigente medesimo con un accordo sugli assetti futuri, basato non sulla linea politica sindacale e sul programma, ma sulla definizione di nuovi equilibri di potere.
Se volgo da vecchio militante lo sguardo al passato, agli ultimi 30 anni, non ricordo dalla CGIL un posizionamento politico e strategico così di “sinistra”. Rifiuto di politiche concertative (ma lì dipende anche dal fatto che la politica nega il ruolo delle parti sociali nella elaborazione delle politiche…), negazione di ogni teoria sull’invarianza delle retribuzioni contrattuali, il rifiuto della subalternità al quadro politico, un giudizio su basi di classe sulle conseguenze della globalizzazione, ecc. L’unico elemento della vita sindacale nella quale il sindacato ha fatto come i gamberi è nei meccanismi della vita associativa. Riflettendo forse in modo inevitabile la società in cui operiamo e senza più alcun vincolo “ideologico” e valoriale alle spalle, anche nelle nostre fila si manifestano leaderismo carismatico, plebiscitarismo, insofferenza verso il dissenso, burocratizzazione del lavoro quotidiano. Le nuove generazioni corrono il rischio di frequentare una pessima scuola e quindi di formarsi anch’esse come cattivi maestri. I nuovi ingressi in segreteria confederale confermano che il pluralismo programmatico che è stata una conquista fondamentale, sta lasciando il posto al pluralismo di strutture, ai gruppi informali e di nuovo al tentativo di definire destra e sinistra in base al riferimento informale vero o presunto alle correnti del PD e della sinistra parlamentare.

L’unanimismo di facciata che ne deriva e che si riflette nel voto bulgaro con cui vengono prese tutte le decisioni, spesso nasconde contraddizioni che dovrebbero essere disvelate e affrontate per arrivare a sintesi e mediazioni che siano condivise nel corpo largo dell’organizzazione, perché altrimenti si trasformano in fuoco che cova sotto la cenere.

Occorre riportare la discussione sul terreno del merito. Dirimente deve essere il confronto sulla strategia, sui contenuti e sulla prassi contrattuale, sul carattere democratico e pluralista di una organizzazione che deve per davvero tornare a restituire centralità ai delegati e alle delegate.

 

Cresce il divario fra l’impianto strategico e la prassi quotidiana. Il nostro impegno è su come rimuoverlo

I tempi della confederazione saranno scanditi fino a primavera dalla campagna referendaria. Anche la Filcams sarà impegnata con iniziative che sono state discusse nella prossima Assemblea generale. Le iniziative sul referendum segneranno il tempo di tutto il resto della attività nella nostra e nelle altre categorie. Così deve essere per segnare in modo inequivocabile il peso della CGIL e del lavoro nella vita politica del paese. E la Filcams per la composizione della categoria stessa potrà parlare con argomenti e un linguaggio assai chiaro di voucher e dii responsabilità del committente negli appalti, perché i nostri iscritti soffrono sulla carne viva le conseguenze della legislazione del lavoro che i referendum vanno a modificare.

Se il tempo è segnato dalla campagna referendaria confederale e dell’apporto di tutte le categorie a questo sforzo, la vita quotidiana della nostra categoria è incardinata in una difficilissima fase contrattuale nella quale il fronte padronale si presenta ad un tempo compatto, per la volontà dei padroni di riprendersi i diritti e le tutele conquistate in anni e anni di contratti, e contemporaneamente disarticolato per la frammentazione e la rivalità delle organizzazioni padronali che si fanno concorrenza e si scindono sulla base, non della offerta di servizi migliori alle imprese, ma per l’“offerta” di condizioni contrattuali più basse per i lavoratori.

L’esito, o per meglio dire lo stato di stallo dei rinnovi contrattuali nel settore dei servizi (perché su quelli di altre categorie non mi pare opportuno che ci si pronunci pubblicamente se non per lodarli quando e per quanto possibile), ci interroga e ci pone domande. Così come gli accordi quadro che or ora abbiamo firmato a livello confederale su artigianato e con Confcommercio.

Quello che balza agli occhi è che sempre più cresce – nonostante le nostre resistenze – il peso della contrattazione di secondo livello, peraltro sempre largamente inesigibile per la maggioranza dei lavoratori, e diminuisce il peso del contratto collettivo nazionale di lavoro, la cui potestà salariale è messa in discussione e che tende a diventare una cornice più che nocciolo e polpa del sistema di tutele e di diritti contrattuali. Cresce il peso del welfare contrattuale e si allarga la sfera di quello aziendale. Il rischio che corriamo è che per la stragrande maggioranza dei lavoratori il CCNL cessi di essere un punto di riferimento, una certezza, un punto di partenza nel riconoscimento del valore del lavoro e della professionalità.

L’aspetto più rilevante è il divario crescente fra l’impianto strategico e la prassi quotidiana. Di questo divario e di come rimuoverlo dobbiamo discutere.

Solo poco tempo fa, abbiamo svolto in forma seminariale una sessione della nostra Assemblea Generale che ha segnato un importante livello di partecipazione ed elaborazione. Quando saranno pubblicati i materiali di quel seminario, potremo esaminare la distanza tra le idee, le aspirazioni, le buone prassi, i sentimenti che quel seminario ha suscitato e organizzato in forma programmatica e le scelte quotidiane che tutti noi facciamo nella contrattazione, nelle vertenze, nell’assistenza. Torneremo sull’argomento con analoga valenza sul piano qualitativo e quantitativo. La prima occasione sarà la nuova Assemblea generale di approfondimento che è già prevista nel nuovo piano di lavoro nazionale della Filcams per il 2017.
La sinistra sindacale, di cui Lavoro Società ha raccolto, fino ad oggi, il testimone nei suoi passaggi congressuali e prima ancora delle dinamiche di movimento, non ha soltanto il compito di rappresentare e organizzare un pezzo di storia, di prassi sindacale, di idee e di valori: la lotta di classe, la società di liberi ed uguali, il sindacato come organizzatore collettivo. La sinistra sindacale non ha solo il compito di far si che questa cultura trovi anche un riconoscimento organizzativo (quelli che polemizzano sui posti in genere i posti ce li hanno e semplicemente non ne vogliono cedere nemmeno uno perché li hanno già “impegnati”). La sinistra sindacale ha sempre avuto e deve avere il compito di rappresentare un punto di vista critico e innovativo che parte dai lavoratori per tornare ai lavoratori. Ha rappresentato uno stimolo, un “di più” nella discussione della CGIL e della categoria.

Nel momento in cui la CGIL e la Filcams si caratterizzano nella vita politica e sociale italiana come l’unico riferimento organizzato e di massa del mondo del lavoro non ci possiamo sottrarre dall’obbligo di contribuire anche noi alla determinazione di una nuova fase dell’azione sindacale che faccia i conti con la complessità.

Mc Donald's, come sopravvivere a una multinazionale - di Frida Nacinovich

Sulla emme più famosa del mondo hanno fatto anche un film. E’ uscito a gennaio anche in Italia. Il protagonista è un attore di grande bravura, Micael Keaton, nei panni dell’uomo che ha ‘inventato’ il panino griffato più celebre del pianeta. McDonald’s. Chi più chi meno tutti ne abbiamo assaggiato uno, magari con le patatine fritte, senza pensare troppo a chi cuoce e ci serve il big mac, il cheeseburger, e tutto il resto del menù.

Se esiste una multinazionale, McDonald’s lo è. Al pari della Coca Cola. L’esercito dell’hamburger è una sorta di Quarto Stato, con milioni di addetti in tutto il mondo. Spesso e volentieri giovanissimi, spesso e volentieri studenti-lavoratori, e tanti tanti immigrati. Succede perché il lavoro è quasi sempre part-time, la paga è bassa, e il turn-over elevato.

Giuseppe Augello fa eccezione, ha iniziato a lavorare per la grande emme nel 2008 e ci lavora ancora oggi. Sta resistendo da quasi dieci anni, un piccolo record in un’azienda che non fa solo fast food ma anche fast work. “Mi pagano circa 750 euro al mese, me le faccio bastare. E non ho mai rinunciato a protestare quando era il caso, e anche a scioperare». Augello, delegato sindacale di McDonald’s, è anche lui un personaggio da film. A parlarci capisci che ha coraggio da vendere, ed è sempre pronto a difendere i colleghi di lavoro che cuociono carne, friggono pesce, pollo e patatine, spillano coca e birra, battono scontrini ai quattro angoli del pianeta.

Augello è Rsa Filcams Cgil da quando ha cominciato a lavorare per la multinazionale del panino. McDonald’s ha cercato di liberarsi di un addetto ‘scomodo’ come lui, ma non ci è riuscita. “Prima mi hanno mandato a Bergamo, poi in due locali destinati alla chiusura, nel cimitero degli elefanti. Con quelli che vogliono mandar via fanno così”. Augello ha citato l’azienda davanti al giudice, per contestare un apprendistato lungo tre anni ma senza formazione. “Uno dei tanti escamotage per pagare meno gli addetti”. McDonald’s ha dovuto accettare la conciliazione, assumerlo a tempo indeterminato, e pagargli tutti gli arretrati.

Cappellino e uniforme di ordinanza, i ragazzi della grande emme sono stati fra i più flagellati dalla tempesta dei voucher. Sono finiti anche in televisione. Augello la vede così: “Mc Donald’s a modo suo è un’azienda dinamica, cambia continuamente strategie e modi di sfruttare il personale”. Il risultato è presto detto: trenta ore di lavoro settimanale, diviso tra cassa, cucina e all’occorrenza a fare le pulizie della sala, ricompensate con i voucher - i buoni dell’Inps con cui si pagano i lavoratori a chiamata, 7,5 euro netti all’ora. Con nessun diritto a ferie, permessi, trattamento di fine rapporto.

“Su questa brutta storia dei voucher - racconta ancora Augello - dopo lo scandalo andato in tv si sono dati una regolata. Ma lo sfruttamento resta. Al momento dell’assunzione fanno firmare clausole di flessibilità che permettono all’azienda di cambiare i turni a suo piacimento. Insomma, un lavoratore di McDonald’s deve aspettare che escano i turni anche solo per organizzare una cena con gli amici”.

In alcuni punti vendita è stato sperimentato il franchising: con la cessione di ramo di azienda sono passati alla gestione di piccoli imprenditori privati.
Va da sé che l’industria del panino con la grande emme continua ad andare a gonfie vele. “L’azienda invece piange miseria, con gesti anche di cattivo gusto come quello di eliminare il tradizionale regalo di un panettone a Natale”. Grazie ai contratti di apprendistato l’azienda ha guadagnato parecchio. “L’età media dei lavoratori - spiega Augello - è piuttosto bassa, dai venti ai trent’anni. I pochi ‘anziani’ esistono grazie alle battaglie del sindacato. Qui a Milano, dove lavoro, i punti vendita sono una trentina. Io sono impiegato alla Galleria Fontana, ex Vittorio Emanuele”.

Augello potrebbe scrivere un manuale di sopravvivenza all’interno di una multinazionale come McDonald’s. “Un altro esempio della poca chiarezza dell’azienda riguarda le norme di sicurezza. Troppa poca formazione per un lavoro piuttosto complesso, che va dalle friggitrici allo scarico delle merci. E anche i tempi di lavoro sono asfissianti: i neo assunti sono costretti a tenere ritmi folli, quasi fossero pagati a cottimo. Molti dopo qualche settimana piantano il lavoro perché non ce la fanno”. Questo è il lato oscuro del panino più famoso del mondo.

Augello è fiero delle battaglie fatte contro trasferimenti e licenziamenti di lavoratori ‘scomodi’, delle assemblee organizzate di domenica, nonostante il divieto dell’azienda. “L’ho presa come una battaglia personale - dice con malcelata soddisfazione - mi hanno fatto scaricare camion, pulire bagni, trasferito a Bergamo. Grazie al tribunale di Milano e alla Filcams Cgil ne sono uscito vittorioso”.

[Questo articolo, con identico titolo, è stato pubblicato sul numero 1 del 2017 di “sinistra sindacale” periodico di Lavoro Società, sinistra sindacale confederale]

Le verità scomode di Viareggio - di Riccardo Chiari

Siamo solo al primo grado di giudizio, ma la sentenza del Tribunale di Lucca per la strage di Viareggio, arrivata dopo quattro anni di indagini e tre di processo, potrebbe diventare una pietra angolare nella valutazione delle responsabilità nei disastri ferroviari.

Per la prima volta, grazie al lavoro dei magistrati della procura di Lucca, degli investigatori della Polfer, e di un consulente tecnico d’eccezione come il docente universitario Paolo Toni, si è risaliti a monte delle pur imperdonabili colpe dei singoli tecnici che avevano mal revisionato il carro merci deragliato nei pressi della stazione. La realtà di un treno carico di sostanze pericolose che circolava a gran velocità ha fatto scoprire che lungo le rotaie che attraversano le città italiane non sono ancora garantite adeguate misure di sicurezza.

E che i sistemi di controllo dei convogli merci – non per caso “implementati” negli anni successivi alla tragedia – non erano all’altezza di quelli adottati nel quotidiano trasporto dei passeggeri. “Il settore merci pericolose non faceva vetrina – è la scomoda verità del pm Giuseppe Amodeo - non era strategico per Trenitalia. Era l’alta velocità che consentiva apparizioni brillanti.

Era altro che interessava”. Anche il Segretario generale della Cgil di Lucca e la segretaria generale Filcams erano presenti in udienza solidali con le vittime e testimoni interessati a conoscere la verità su una tragedia immane, provocata da una “sistema” responsabile di inadempienze e omissioni, negligenze e imprudenze. Sulle quali i vertici di Rfi e Trenitalia, al pari della multinazionale Gatx e della sua officina Jungenthal, potevano intervenire e non sono intervenuti. Ci sono ancora due gradi di giudizio, ma non sarà facile smentire quanto emerso in una delle più complesse e accurate indagini mai svolte nel paese.