La trappola del debito - di Riccardo Chiari

Tanto rumore per nulla? All’annuncio della nascita del nuovo governo giallo-verde, lo spread è ripiegato e gli indici di Piazza Affari sono risaliti. La chiave di lettura di quasi tutti i media si è incentrata sulla figura “rassicurante” di Giovanni Tria, nuovo ministro dell’economia, che si è detto sfavorevole all’uscita dall’euro, e incline alla cosiddetta “flat tax” solo se ci saranno adeguate coperture. Premettendo che la flat tax sarebbe solo un ulteriore aiuto ai ricchi, c’è comunque una morale che si può trarre da quanto accaduto nell’ultima settimana: nei ruoli chiave (economia e finanze, e anche agli esteri) sono stati chiamati dei ministri “tecnici”, compatibili con i vincoli monetaristi dei Trattati Ue.
Che non ci sarebbe stata una rivoluzione ad opera del “governo del cambiamento” M5S-Lega, era chiaro fin dallo scorso marzo, quando sono arrivate le periodiche istruzioni dalla Ue per l’Italia. In sintesi, una strada già tracciata, e difficilmente modificabile, quale che fosse il nuovo governo uscito dalle urne il 4 marzo. Una strada che naturalmente ordina, testualmente, di “provvedere a una tempestiva attuazione del programma di privatizzazioni, e utilizzare le entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/pil”; “rafforzare il quadro della contrattazione collettiva, al fine di permettere contratti collettivi che tengano maggiormente conto delle condizioni locali”; “razionalizzare la spesa sociale”.

In definitiva, scrive l’imprescindibile rubrica “Nuova finanza pubblica” sulle colonne de ‘il manifesto’, ogni governo - non solo quello italiano - deve giocare le sue carte “dentro il terreno di gioco, più che condiviso, delle politiche liberiste e di austerità, che non possono in nessun modo essere ridiscusse, e che hanno bisogno dello choc del debito per disciplinare la società, e quanti dentro la stessa non rinunciano a voler cambiare il mondo”.

Eppure, ma nessuno lo ha detto in tv o sugli altri media in questa settimana, gli italiani dal 1980 ad oggi – dalla separazione fra Bankitalia e Tesoro – hanno pagato 3.400 miliardi di interessi su un debito che continua ad essere di 2.250 miliardi. E’ la “trappola del debito”, che nel corso degli ultimi 40 anni, e in particolare dalla stipula dei Trattati Ue a partire da quello di Maastricht all’alba degli anni ‘90, ha permesso la progressiva deregolamentazione dei diritti sociali e del lavoro, la mercificazione dei beni comuni, e la privatizzazione dei servizi pubblici. Poi, per chi le tasse le paga, non è certo consolatorio sapere che, a furia di “avanzi primari” - che peraltro finiscono solo per ripagare i soli interessi sul debito - lo Stato italiano ha incassato più di 750 miliardi che non ha restituito in servizi ai cittadini.

"O inventiamo o sbagliamo" - di Geraldina Colotti

“On s’engage, et puis on voit!”, “Ci si butta e poi si vede”. Nel famoso articolo “Sulla nostra rivoluzione”, comparso sulla Pravda il 30 maggio del 1923, Lenin cita nuovamente la frase di Napoleone per ribadire la necessità di saper cogliere le occasioni storiche anche quando queste sembrano poco consone allo schema, al programma dei rivoluzionari. Un’attitudine che ben caratterizza lo spirito con cui la “rivoluzione bolivariana” ha saputo navigare nei frangiflutti di questo secolo 21, e presentarsi ancora dopo la sua 24ma elezione presidenziale vinta, un po’ sfibrata ma pronta a rilanciare il motto di Simon Rodriguez: “Inventamos o erramos” (“o inventiamo o sbagliamo”).

Nicolas Maduro è stato rieletto presidente con oltre sei milioni di voti. Per alcuni una “vittoria di Pirro”, dato l’alto livello di astensione e la diserzione della destra più estremista. Per altri, una vittoria storica, visto lo stacco con l’avversario di centro-destra, Henry Falcon (1.800.000 preferenze).

Una vittoria non scontata, anche se preceduta dal pieno di voti ottenuto dal PSUV e dai suoi alleati in altre tre consultazioni elettorali: l’Assemblea Nazionale Costituente, le regionali e le comunali. Dopo la morte di Chávez (il 5 marzo del 2013) e la prima elezione di Maduro, il grande capitale internazionale ha cercato in ogni modo di riprendersi un pezzo importantissimo del suo “cortile di casa” che custodisce risorse strategiche per riossigenare la crisi generale storica in cui si dibatte. Finora non ce l’ha fatta, ma confida in un blocco economico-finanziario come quello imposto a Cuba, a cui concorre l’Europa. La partita del Venezuela – un paese dove il presidente occupa le fabbriche insieme agli operai – è ancora aperta. Che quella porta non si chiuda, dipende ora anche da noi.

La FILCAMS-CGIL può fare alla grande la sua parte! - di Andrea Montagni

Traccia dell’intervento all’Assemblea generale nazionale della FILCAMS-CGIL del 14/15 maggio 2018 (2)

il sindacato confederale è oggetto di un attacco sistematico, il cui obiettivo è imporre un modello di relazioni sindacali che escluda i corpi sociali dalla discussione delle grandi scelte del paese per confinarli in una logica corporativa categoriale e aziendalistica. L’obiettivo è spezzare il legame tra i settori tutelati del mondo del lavoro (sempre meno e sempre più esposti al rischio di perdere tutele) dalla grande massa dei nuovi schiavi della economia digitale, informatica, della logistica e dei servizi, privi di diritti.

La previdenza è attaccata attraverso la decontribuzione e lo stato sociale attraverso la defiscalizzazione. Il meccanismo premiale per il welfare aziendale, mira a legare lavoratore e azienda.

Per tenere assieme gli uni e gli altri dovremo fare anche qualche compromesso. Per non consegnare al corporativismo i lavoratori “strutturati” e poter usare la loro forza al servizio della causa generale del lavoro.

La Carta dei diritti e i referendum sono una pietra miliare che hanno testimoniato la capacità di tenuta e organizzato su un terreno di contrasto milioni di lavoratori.

La CGIL ha in questi anni affrontato uno scontro durissimo. I governi della passata legislatura si sono caratterizzati per politiche neoliberiste e antipopolari, hanno puntato all’isolamento e alla sconfitta della CGIL fino allo schiaffo del decreto-truffa sui voucher. Abbiamo retto e contrastato.

Siamo sulla difensiva. Teniamolo presente. La questione centrale oggi è difendere il contratto collettivo nazionale di lavoro come strumento di regolazione dei rapporti tra padroni e lavoratori e garantire la tutela di ogni lavoratore nel contenzioso anche individuale.

La FILCAMS ha alle spalle una robusta elaborazione sul terreno dei diritti e della linea rivendicativa che ha trovato modo di essere largamente socializzata in iniziative larghe rivolte al quadro attivo e che è condivisa in modo pressoché unanime. Ma questa ricchezza si scontra con una difficoltà crescente di tenuta sul piano contrattuale.

La FILCAMS conosce le difficoltà di settori in crisi (per la crisi del modello della grande distribuzione organizzata e il crollo della domanda interna, della crisi industriale per il settore commerciale legato alla produzione, alla edilizia, ecc. per la politica di spending review che ha tagliato appalti tra gli altri) con alcune eccezioni nel terziario avanzato e nei gruppi multinazionali legati a settori in ripresa e quindi conosciamo una difficoltà concreta tanto sul piano della rivendicazione salariale, che soprattutto su quella del contrasto dell’assalto ai diritti su orari, flessibilità, malattia da parte padronale. Altre categorie hanno un margine contrattuale maggiore legato all’incidenza del costo del lavoro sulla determinazione del valore dei prodotti o alla professionalità, oppure hanno fatto la scelta della via più semplice, con accordi contrattuali costi quel che costi che non hanno niente a che fare con quanto scritto nei propri documenti.

La FILCAMS-CGIL in questo senso è in mezzo al guado. La linea sindacale, il programma d’azione e la prassi contrattuale e organizzativa dovranno essere oggetto anche di una specifica riflessione.

Possiamo esaminare e sottoporre a verifica la distanza tra le idee, le aspirazioni, le buone prassi, i sentimenti che suscitiamo e organizziamo in forma programmatica e le scelte quotidiane che tutti noi facciamo nella contrattazione, nelle vertenze, nell’assistenza per mantenere la potestà contrattuale e la rappresentanza dei lavoratori.
L’aspetto più rilevante è il divario crescente fra l’impianto strategico e la prassi quotidiana. Di questo divario e di come rimuoverlo dobbiamo discutere.

Voglio essere chiaro. La nostra discussione deve basarsi su un postulato: l’obiettivo di questo lavoro teorico e pratico NON è rimettere in discussione l’impianto strategico, è individuare tattica e strumenti di approssimazione a quello impianto per far sì che la CGIL si confermi una grande organizzazione di rappresentanza, confederale e di classe, capace di organizzare, rappresentare, tutelare le lavoratrici e i lavoratori del nostro paese, senza distinzione alcuna, né di genere, né di nazionalità, né di religione.

Nel fare il bilancio della nostra attività dal passato congresso ad oggi non ci dobbiamo nascondere le difficoltà, le battute di arresto, gli arretramenti. Ma dobbiamo essere consapevoli che l’aver resistito all’attacco frontale portato con il jobs act, la legge Fornero ai diritti del lavoro, aver continuato il lavoro di organizzazione dei nuovi lavori, per sindacalizzarli e portare avanti le loro rivendicazioni, aver offerto all’insieme degli uomini e delle donne che lavorano, la Carta dei diritti, aver raccolto milioni di firme, aver contribuito alla sconfitta del tentativo di manomettere la Costituzione repubblicana, tutto questo costituisce un fatto positivo! La FILCAMS- CGIL può fare alla grande la sua parte, portando un contributo di idee e di esperienze, di ricchezza e diversità del mondo del lavoro e di pluralismo e democrazia nella propria vita interna.

Unità, pluralismo e confederalità - di Andrea Montagni

Traccia dell’intervento all’Assemblea generale nazionale della FILCAMS-CGIL del 14/15 maggio 2018 (1)

I nostri congressi si svolgono ancora in modo antico: assemblee di base con partecipazione volontaria, votazione delle liste e dei documenti. Il tempo a disposizione per le assemblee di base è veramente risicato: un’ora, due ore massimo. Nelle grandi aziende, il modello partecipativo si accompagna con un meccanismo più istituzionale, con seggi aperti dopo le assemblee, urne presidiate e tutto il resto. Questo modello partecipativo, per quanto obsoleto, imperfetto, basato sulla voglia di essere presenti e di contare, ma soprattutto sulla disponibilità all’ascolto e alla parola, rimane il migliore. Pensate cosa sarebbe di noi oggi, se al passato congresso, avessimo convenuto sul metodo delle primarie: da oltre un anno saremmo in balia di uno scontro aperto tra contendenti ala carica di Segretario generale, che nella nostra organizzazione conta molto meno che in altre e che è l’espressione (possibilmente la sintesi) di un gruppo dirigente largo, prima il Comitato direttivo nazionale e oggi, con la modifica statutaria l’Assemblea generale. Certo, si potrà obiettare che questo scontro in realtà sottotraccia c’è, e nei corridoi delle camere del lavoro non si parla d’altro, ma questo scontro è “costretto”, e speriamo che così resti, entro dei confini di decenza, con la possibile retromarcia dei singoli che può permettere alla fine di ricostruire sul programma e sulla linea, se condivise, una più forte unità e ridimensionare le personali ambizioni, offrendo una via d’uscita che salvaguardi la dignità dei singoli.

Con altre centinaia di compagne e compagni della Confederazione, tante e tanti anche della FILCAMS-CGIL, ho sottoscritto un documento “Per una CGIL unita e plurale” che identifica la mia area politico/culturale e sindacale di appartenenza, che rivendica un percorso critico dentro l’organizzazione e si riconosce nelle posizioni che ha oggi la CGIL, proprio a partire dal quel percorso e quel contributo.

In questo percorso stanno anche le ragioni della adesione al documento congressuale “Il lavoro è” che è oggetto della discussione e del confronto odierno e che è stato discusso in tutte le Assemblee generali di categoria e confederali in tutto il paese. Una ulteriore conferma che pur con le sue farraginosità il nostro modello democratico è capace di rinnovarsi e continua ad offrire nella partecipazione la chiave di una democrazia, che non esprime la dittatura di una maggioranza, ma la ricchezza plurale di chi ricerca, senza unanimismi e senza annichilire le diversità dei punti di vista, degli approcci, delle esperienze, della collocazione sociale e lavorativa, il massimo consenso come strumento di assunzione delle decisioni e degli orientamenti.

La sinistra sindacale in FILCAMS-CGIL ha espresso e esprime compagne e compagni in tutto il gruppo dirigente, anche con responsabilità generali, ma da due congressi è esclusa dalla segreteria nazionale, nonostante la sua rappresentatività. Una esclusione determinata da gabole burocratiche che sono arrivate fino all’imporre – una esperienza che si poi conclusa prima della fine del mandato – una presenza che non era neppure condivisa dalle compagne e dai compagni che quella presenza avrebbe dovuto rappresentare. Penso che questa assenza era e rimane un vulnus al carattere pluralista della nostra organizzazione e ne indebolisca la capacità di confronto e articolazione. Un vulnus che a questo congresso deve essere sanato.

Esecutivi che abbiano al proprio interno la ricchezza di un dibattito plurale e dialettico, anche aspro quando necessario, sono una garanzia contro le derive burocratiche, contro le smodate ambizioni di singoli, contro degenerazioni nei comportamenti degli apparati e nella gestione, fenomeni che sono in parte inevitabili, ma anche il prodotto della sottovalutazione delle dinamiche relazionali quando siano sottratte alla politica e al dibattito di merito, come metro di giudizio delle qualità e dell’orientamento dei dirigenti e dei quadri dell’organizzazione.

Ikea, cassiera part-time, non per scelta - di Frida Nacinovich

Sarà anche vero che ‘cambiare diventa un gioco’, come recita un fortunato slogan di Ikea, però certe cattive abitudini sono lontane dall’essere abbandonate. Succede così che nei grandi punti vendita della multinazionale di origine svedese - quotidianamente presi d’assalto da migliaia di clienti desiderosi di arredare casa con pochi soldi e molta fantasia - il lavoro sia frammentato da un numero abnorme di contratti part-time. Non fatti per libera scelta dei singoli addetti, quanto per precisa strategia aziendale.

“È vero, siamo quasi tutti part-time - racconta Stefania Fanelli - io ad esempio lavoro 24 ore settimanali, e ho uno stipendio che non supera gli 850 euro mensili. Quasi inutile spiegare che con una somma del genere si arriva alla terza settimana del mese, non oltre. Se non ci sono altre entrate straordinarie”. Fanelli si autodefinisce “cassiera part-time, ma non per scelta”. È impiegata all’Ikea di Afragola, in provincia di Napoli. Lavora lì dal 2004, da quando la strategia di espansione della multinazionale raggiunse la Campania.

“Per quello che ho potuto vedere in questo tempo - sottolinea la donna - l’azienda ha scelto deliberatamente di trascurare i contratti full-time e di far ricorso sistematicamente ai part-time. Di tempi pieni ce ne sono davvero pochi, concentrati soprattutto ai livelli dirigenziali. Quanto agli altri, io mi reputo una fortunata, perché ci sono colleghe e colleghi che lavorano soltanto 20 ore settimanali. Anche famiglie monoreddito, anche persone che vengono da lontano e fanno chilometri e chilometri per arrivare al lavoro”.

Stefania Fanelli è una dei 370 addetti dell’Ikea di Afragola. Un numero piuttosto grande, ma giustificato dal fatto che il colosso dell’arredamento fai-da-te non conosce la parola crisi. Prova ne sono l’affollamento, e le lunghe file alle casse. “I clienti, pur soddisfatti dei loro acquisti, si lamentano invariabilmente perché quando si tratta di pagare sono costretti a fare la fila. Noi cerchiamo di fare il più velocemente possibile, ma siamo davvero pochi per far fronte alla massa di persone che vengono a fare shopping”.

Anche in Campania è arrivato l’eco del ‘caso Marika’, la dipendente di Ikea licenziata perché il cambio dei turni di lavoro non le consentiva di assistere adeguatamente uno dei figli, disabile. “Una storia drammatica - tira le somme Fanelli - che ci ha toccato profondamente. Anche perché parla di noi donne e della difesa di diritti che pensavamo essere consolidati. Fino al rifiuto della proposta di cambio orario, Marika era una lavoratrice impeccabile, apprezzata dall’azienda. Per fortuna casi analoghi, almeno qui da noi, non ci sono mai stati”.

Per certo la proliferazione di contratti part-time non è un’abitudine della sola Ikea. Nei punti vendita della grande distribuzione sta diventando una prassi consolidata. “Va a finire così che, per quadrare il bilancio familiare, molti addetti di ogni ordine e grado diano la propria disponibilità al lavoro domenicale e negli altri giorni festivi - riflette Fanelli - non dimentichiamo che ci sono marchi della grande distribuzione che aprono e chiudono punti vendita con una velocità impressionante. I dipendenti devono accettare paghe ridicole, e nessun compenso per gli straordinari. Sono degli invisibili, i nuovi schiavi. Del resto nell’Italia del jobs act l’impostazione dei rapporti di lavoro è chiara”.

Nell’Ikea di Afragola le relazioni sindacali sono buone, compatibilmente al fatto che il contratto collettivo nazionale ancora non è stato rinnovato. Per giunta in questo 2018 scadrà anche l’integrativo aziendale. “Per riconquistare il contratto, come Filcams Cgil abbiamo fatto diversi scioperi, l’ultimo alla vigilia di Natale. Il numero di iscritti al sindacato da noi è molto alto”. In 14 anni di lavoro in Ikea, Fanelli ha maturato un’esperienza ‘sul campo’ di tutto rispetto. “L’azienda è uscita da Confcommercio ed è entrata nelle file di Federdistribuzione. Così facendo ha disdetto unilateralmente il contratto integrativo aziendale, bloccando gli aumenti salariali e diminuendo le maggiorazioni legate alle festività. Sarà un caso, ma dopo questa mossa hanno deciso di tenere aperto anche a Pasquetta, il 25 Aprile, a Ferragosto. Hanno adottato anche delle promozioni abbastanza discutibili per incentivare il lavoro nei festivi, come organizzare gratuitamente le feste per i figli dei dipendenti. Se lavori 20 ore a settimana e guadagni 700 euro, va da sé che prendi quel che viene”.

L’età media degli addetti ad Afragola è piuttosto bassa; con i suoi 49 anni, Stefania Fanelli è una veterana. Il punto vendita resta aperto dodici ore non stop, fino alle 21 serali. Perché il cliente di Ikea ama i mobili pret-à-porter della multinazionale. Non si cambiano come un vestito, ma quasi.

[Questo articolo con il titolo “Ikea, cassiera part-time ma non per scelta” è comparso già su sinistra sindacale n. 9 del 2018]