Dubbi democratici - di Riccardo Chiari

“Mi domando che cosa debbano essere le feste dell’Unità o che cosa siano diventate. Sono strumenti per propagandare la linea del partito? Allora non ha senso chiamare questi eventi ‘dibattito’, e pensare che la gente li frequenti”. Difficile dar torto a Maria Chiara Carrozza, di fronte alle prese di posizione a dir poco lunari di molti dirigenti del Pd in merito alla presenza nelle kermesse dei banchetti “critici” dell’Associazione nazionale dei partigiani. La deputata dem, ex rettrice della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, dà voce ai tanti dubbi di chi, pur annunciando il suo “Sì” alla consultazione popolare di novembre, nondimeno è rimasta spiazzata dall’acrimonia con cui è stata trattata l’Anpi. 

La parlamentare non è stata la sola a segnalare la patologica peculiarità della situazione. “Recuperiamo i rapporti con l’Anpi - ha detto a chiare lettere il presidente toscano Enrico Rossi - sono costitutivi di un partito di sinistra”. Di più, avverte Maria Chiara Carrozza: “Le feste dell’Unità devono garantire un pluralismo di opinioni, altrimenti il dibattito non ha senso, diventa soltanto una cassa di risonanza della posizione maggioritaria. Che senso ha organizzare un incontro, chiamarlo ‘dibattito sulla riforma costituzionale’, e poi chiamare a discutere tutte persone che, anche se con varie funzioni nella società, ripetono di essere d’accordo con la stessa linea? Per sentire la linea del partito basta guardare le e-news e i social network”.

Per giunta, a ben vedere, l’Anpi è sempre stata invitata alle feste del Pci, poi del Pds, poi dei Ds e infine del Pd. In quelle occasioni ci sono sempre stati i dirigenti del partito, i sindaci e i partigiani. “Il confronto e i valori dell’Anpi fanno parte del nostro dna – osserva la deputata – e della nostra storia. Rinnegarla mi sembra una forzatura, come lo è negare uno spazio all’Anpi. Mi sembra sbagliato dire che non possono partecipare raccontando le loro ragioni”.

Un referendum, troppe polemiche - di Riccardo Chiari

La Costituzione repubblicana che conosciamo fu votata da quasi tutte le forze politiche presenti nel paese ancora devastato dalla guerra. Furono esclusi – per ovvi motivi - solo i fascisti che si erano ritrovati sotto le insegne del Msi. Anche su questo dato di fatto, di fronte al progetto di riforma costituzionale perseguito dal Pd e da alcune piccole formazioni di centrodestra, si muovono le critiche di chi non è affatto convinto della bontà della revisione della Carta operata dal governo di Matteo Renzi. In prima fila i partigiani e i loro ideali eredi, riuniti nell’Anpi, che dopo una lunga e articolata discussione interna hanno deliberato praticamente all’unanimità di votare “No” alla consultazione popolare del prossimo novembre.

L’avessero mai fatto. Anche il democratico confronto tra le ragioni del sì e le ragioni del no al referendum è diventato un tormentone estivo, dopo che gli organizzatori delle feste dell’Unità avevano fatto sapere a chiare lettere di non gradire la presenza attiva dell’Anpi alle kermesse piddine. Alla fine il segretario del partito Renzi si è convinto a proporre un dibattito sul tema al presidente dell’Associazione partigiani, Carlo Smuraglia. Ma anche su questa apertura non sono mancati i commentatori di area Pd, come Michele Serra, pronti a sottolineare “che Renzi ha deciso in dodici secondi, mentre l’Anpi si è presa dodici giorni per accettare la proposta”. Ma questo, semplicemente, perché l’associazione è abituata a decidere in maniera collegiale. Una modalità di azione che sta diventando estranea al modus operandi del partitone tricolore?

Comunque sia l’incontro si farà. Anche se, al momento, la sede, la data, la modalità di svolgimento e la scelta del moderatore/trice devono essere ancora concordate. Le ultime notizie raccontano che l’appuntamento potrebbe svolgersi alla festa di Bologna nella prima decade di settembre, oppure nel corso della festa nazionale che quest’anno si svolge a Catania. Intanto nel capoluogo emiliano, tanto per non farsi mancare niente, è arrivata la numero due del partito Debora Serracchiani che ha esordito così: “Io sono iscritta all’Anpi e voterò ‘Si’ al referendum. E spero che l’associazione non mi cacci”. Una dichiarazione non certo accomodante.

Peraltro alla festa felsinea il banchetto dell’Anpi ha avuto la possibilità di affiggere i suoi manifesti per “No”, distribuendo copie della Costituzione. Un esercizio, meritorio, di democrazia. Dal canto suo il Pd ha organizzato ogni sera un incontro, con professori universitari e dirigenti del partito che illustrano ai frequentatori della festa le ragioni del “Sì”: fra questi Salvatore Vassallo, Elisabetta Gualmini, Filippo Taddei e Paolo Pombeni. Domanda retorica: ci voleva così tanta fatica per arrivare a questa elementare conclusione?

 

Lotta di classe negli Stati Uniti Il movimento per il salario minimo - di Pericle Frosetti

Gli USA sono un paese cruciale, il cuore e la mente della economia capitalista. Alle volte ai nostri occhi appaiono come un blocco omogeneo, tranne quando le contraddizioni esplodono in modo violento e repentino come per la questione razziale, o quando i mass media si concentrano sulle primarie o le elezioni presidenziali. O quando annunciano l’ennesimo intervento militare.

Gli Stati Uniti sono anche un paese nel quale il movimento sindacale continua ad avere una forza imponente, ma è frammentato, spesso corporativo, più volte colpito nella sua storia e che ha dovuto fare i conti per primo con un gigantesco processo di precarizzazione del lavoro e di smantellamento di tutele e con un processo migratorio dal sud dell’America verso il Nord e con una persistente discriminazione verso la popolazione afroamericana.

A partire da Occupy Wall Street, e prima ancora dal movimento di Seattle, gli Stati Uniti hanno visto un ritorno in campo di un punto di vista critico contro il liberismo e la globalizzazione. Questa lotta ha trovato nella candidatura di Bernie Sanders alle primarie democratiche una prima sponda politica.

Anche il sindacato si pone il problema di uno sbocco politico, come dimostra la partecipazione attiva delle Unions alle primarie americane a sostegno o della Clinton o di Sanders, ma prima ancora si pone il problema di fondo: la capacità di organizzare e rappresentare i lavoratori, anche la massa precaria e pauperizzata.

[Su “reds” abbiamo già dato notizia del movimento per il salario minimo negli Stati Uniti d’America. Pubblicammo un articolo di un sindacalista statunitense (nel n.7 del 2014). Ci torniamo oggi].

La "Fight for 15" e il sindacato - di Peter Olney e Rand Wilson

Il movimento per il salario minimo negli stati uniti

Il Service Employees International Union (SEIU), con oltre 2 milioni di iscritti perlopiù nel settore pubblico, è sindacato promotore e guida della Fight for $15. Senza il suo supporto e coordinamento nazionale, “gli scioperi di un giorno” contro i McDonald’s e gli altri fast food non sarebbero mai avvenuti.

Gli scioperi iniziarono nel 2012 e il 29 agosto 2013 ne furono indetti in oltre 60 città.

Le mobilitazioni, spesso, hanno registrato una piccola percentuale di adesione tra i lavoratori nei negozi, ma le manifestazioni pubbliche e le dimostrazioni sono state supportate dalla presenza degli iscritti del SEIU di altri settori e da gruppi di comunità e sindacati.

Queste azioni hanno prodotto una pressione e un valore nella lotta su McDonald’s e gli altri datori di lavoro dei fast food: nel 2015 McDonald’s ha annunciato che alzerà il minimo salariale per alcune migliaia di suoi lavoratori.

Ma fino ad oggi la campagna non ha dimostrato la capacità di costringere McDonald’s o uno qualsiasi degli altri fast food ad accettare il sindacato quale rappresentante per la contrattazione dei suoi dipendenti, e non è chiaro quanti lavoratori effettivamente siano coinvolti giorno dopo giorno nell’organizzazione delle attività sindacali.

I licenziamenti per rappresaglia per l’attività sindacale sono dilaganti ed è difficile difendere i lavoratori con le normative del diritto del lavoro negli Stati Uniti.

Il turnover è alto e la sindacalizzazione dei lavoratori è poco consistente. Ma la lotta per i 15 dollari, guidata da SEIU, continua ad essere una voce forte che raccoglie un notevole consenso nella storia dei movimenti degli Stati Uniti.

Possiamo infatti sostenere che non sono più gli economisti liberisti a dominare il dibattito sostenendo che un aumento dei salari minimi distruggerebbe posti di lavoro e l’economia.

Diversi movimenti e iniziative hanno contribuito a questo cambiamento epocale nell’opinione pubblica: nel 1996 la città di Baltimora, pressata dalle organizzazioni (non solo del sindacato, ndt), ha emesso un’ordinanza sul “Living Wage” (potrebbe essere tradotto come “salario sostenibile”, ndt) che raccomanda che per le commesse di lavoro ricevuta dal Comune vengano applicate delle paghe con un minimo salariale superiore. Los Angeles ha fatto lo stesso nel 1997.

Nel 2011 le proteste di Occupy Wall Street nelle città degli USA hanno individuato la disparità economica tra l’1% ed il 99%; nel 2012 il Fight for $15 e il sindacato hanno lanciato gli scioperi nei fast food in tutti gli Stati dell’Unione; nel 2013 SeaTac, una piccola cittadina che comprende l’aeroporto di Seattle, ha stabilito un salario minimo di 15 dollari e nel 2014 e 2015 San Francisco e Los Angeles hanno seguito l’esempio.

La campagna presidenziale per Bernie Sanders ha richiamato esplicitamente i 15 dollari quale minimo federale e ha posto delle pressioni alla candidatura democratica di Hillary Clinton per adottare i 15 dollari quale parte della piattaforma politica dei Democratici.

I sostenitori di Fight for $ 15 che si sono riuniti ad agosto a Richmond, in Virginia, possono celebrare i progressi che sono stati fatti nell’aver imposto la discussione a livello nazionale allontanandola dalla tematica dell’austerità e focalizzandola sulla disuguaglianza economica. Possono mettere in risalto il loro ruolo in un movimento più grande per aumentare il salario minimo; movimento che avrà un impatto su milioni di lavoratori a basso salario, attraverso aumenti statali e municipali.

La visibilità mediatica della campagna ha avuto un enorme impatto politico e successo, ma fino ad oggi la campagna non ha costruito una sostenibile organizzazione dei lavoratori. Un alto turnover del personale abbinato a un numero enorme di siti lavorativi in franchising rendono difficile organizzare in maniera duratura dei lavoratori. Forse la chiave di volta, in questo settore come negli altri relativi alla vendita al dettaglio, sarà il coinvolgimento dei lavoratori impegnati nella catena di fornitura. I lavoratori dei magazzini e degli autotrasporti che forniscono la merce al fast food potrebbero rendere più forte e duraturo il movimento, anche se apparirebbe meno appetibile dal punto di vista mediatico.

La "Fight for 15"! - di di Peter Olney e Rand Wilson

Un grande movimento e i piccoli passi in avanti (che riguardano milioni di lavoratori…)

Dopo le convention repubblicana e democratica per le nomine dei candidati alla presidenza, una convention di altro genere si è svolta a Richmond, in Virginia.

Questo consesso di attivisti e lavoratori di tutte le parti del Paese era il congresso della “Fight for $15” (letteralmente “Lotta per i 15 dollari”). La riunione ha evidenziato i collegamenti tra il salario minimo orario rivendicato dalla Fight for 15$, l’uguaglianza economica e il raggiungimento di una giustizia razziale.

L’aver scelto quella che fu la capitale della Confederazione (Richmond è stata la capitale sudista durante la guerra di secessione americana, ndr) non è stato casuale e l’evento si è concluso con una una marcia fino al monumento a Robert Lee, simbolo della cosiddetta supremazia razziale.

Questa riunione ha rappresentato un altro passo importante della lotta per il salario minimo orario di 15 dollari.
Nel 1938 il salario minimo negli Stati della Federazione fu fissato a 0,25 dollari l’ora. Con il passare degli anni il salario è aumentato fino a 7,25 dollari l’ora, che non garantisce comunque un livello di vita adeguato in nessuna parte degli Stati Uniti.
Gli Stati e i Comuni sono liberi di innalzare i minimali e così hanno fatto quelle città e quegli Stati ove vi è una forte presenza sindacale e di politiche progressiste.

Il salario minimo del Massachusetts è di 10 dollari e in Michigan è di 8,50.

La città di San Francisco ha un salario minimo di 13 dollari. Gli Stati della vecchia Confederazione sono quelli che hanno i salari più bassi e hanno resistito agli sforzi dei comuni per innalzarli. Birmingham, in Alabama, ha recentemente aumentato il suo minimale a 10,10 dollari l’ora e lo stesso aumento era stato negato in precedenza dalla legislatura dello Stato, governato dai bianchi Repubblicani.

Sia la California sia New York hanno recentemente aumentato i loro minimi a 15 dollari l’ora, che verranno raggiunti gradualmente in California nei prossimi 7 anni fino al 2023 e nella grande città di New York entro il 2021, mentre nel resto dello Stato dopo il 2021.

Sebbene questi minimi rappresentino ancora un’entrata esigua per le famiglie della classe operaia in lotta, il cambiamento di tali minimi e il loro riconoscimento sociale sono in una fase di rapida crescita e di sviluppo sorprendente e rapido.