Sana e robusta Costituzione - di Riccardo Chiari

“Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è”. La voce di Tomaso Montanari risuona forte e chiara nel più bel cinema di Firenze, l’Odeon nel palazzo dello Strozzino. Strapieno. Nel 2 Giugno della nascita della Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, la festa regalata da Libertà a Giustizia ha, come ricorda Sandra Bonsanti, “un alto valore simbolico”. Anche pratico: all’ingresso si fa la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi su jobs act, “buona scuola”, privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro “Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile” resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio, Nadia Urbinati e altri ancora demoliscono la narrazione che gli attuali governanti stanno ammanendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.
“Anche noi abbiamo diritto di parola”, ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: “In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava”. Cosa è rimasto di quel sogno? “Non si è compiutamente realizzato. Oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due”.

Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: “Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta ‘governabilità’, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la ‘legge truffa’. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere”.

Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky. Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: “Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: ‘Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?’”.

Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.

Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: “I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni”. Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista. Sono applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: “Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi”.

A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: “Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come ‘la cosa più di sinistra che ha fatto il governo’. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori ‘scomodi’ per primi”. Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, “che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto”. Non come oggi, dove domina l’astensione: “Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle”. Ma c’è ancora una speranza: “Votare ‘no’ oggi è l’unica condizione per poter dire ‘sì’ domani al cambiamento, vero, del paese”.

Nuovi equilibri negli anni 90, tra politica e sindacato - di Gianluca Lacoppola

Alla fine degli anni Ottanta l’Italia sembra destinata ad una lenta trasformazione in direzione di una sempre maggiore laicizzazione del potere. Liberare i costumi per adeguarli all’edonismo del nuovo liberismo, favorire una seconda e più profonda “americanizzazione” degli stili di vita diventa un’esigenza sempre più forte e l’ascesa di Craxi si innesta in questo contraddittorio processo.

E invece nei primissimi anni Novanta si registra una rottura repentina degli equilibri di potere. La caduta del blocco sovietico ha come conseguenza la perdita per il nostro paese della sua connotazione di terra di confine, che aveva avuto a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Il quadro politico internazionale cambia troppo rapidamente. L’Italia di fatto non regge e attraversa una crisi economica, politica, sociale e morale. Una tempesta innestata da Mani pulite, scossa dalle bombe mafiose e dal tracollo della lira e da una profonda crisi del sistema economico basato sulle piccole imprese.

È in questa complicata fase che la Cgil, dopo le difficoltà del decennio precedente, cerca di tornare a puntare sulla sua natura contrattuale. Il tentativo ha però almeno due resistenze. La prima è la totale crisi di credibilità della politica che chiama nuovamente i sindacati a compiti di responsabilità generale. La seconda, e forse più importante, risiede nella volontà delle classi dominanti di tornare a dare ai sindacati un ruolo contrattuale solo dopo essersi garantite la subordinazione dei salari ai profitti. È su queste basi che il 31 luglio 1992 Cgil, Cisl e Uil firmano un accordo col governo che abolisce definitivamente la scala mobile e blocca per un anno la contrattazione collettiva. La portata dell’accordo è storica come dimostra il fatto che il segretario generale della Cgil Bruno Trentin decide di dimettersi il giorno dopo la firma con queste parole: “Vi confermo la mia decisione, che ho comunicato ad alcuni di voi nella riunione di questa sera a Palazzo Chigi, di rimettere al comitato direttivo della Cgil il mio mandato di segretario generale e di membro della segreteria nazionale. (…) Questa mia decisione - prosegue Trentin - è dettata in tutta serenità dalla duplice e contraddittoria convinzione di avere operato per l’accettazione del testo finale del protocollo presentato dal presidente del consiglio, allo scopo di scongiurare l’impatto simultaneo, sui lavoratori e sull’opinione pubblica, in una situazione già così drammatica per il paese, di una possibile crisi di governo, di una frattura dei rapporti fra le tre confederazioni sindacali e di una crisi grave nei rapporti unitari in seno alla Cgil; e, nello stesso tempo, di avere così disatteso il mandato, da me stesso sollecitato, di acquisire dal governo alcune modifiche sostanziali del testo da questi predisposto, in modo particolare per quanto attiene alla salvaguardia, anche nel corso del prossimo anno, della libertà di contrattazione nell’impresa e nel territorio’’.

Un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 23 luglio 1993, viene definitamente varata una politica dei redditi, orientata al contenimento (o meglio all’erosione) salariale, come base per il controllo dell’inflazione e il rilancio della competitività del sistema delle aziende italiane. Non solo, prende infatti avvio la stagione della concertazione in cui i sindacati confederali accettano di collaborare con il governo per garantire di fatto la subalternità del lavoro alla compatibilità dell’impresa. Siamo al ribaltamento della teoria dei salari come variabile indipendente del capitale, e il profitto viene elevato a interesse generale.

Una volta definiti i confini entro il quale il sindacato è costretto a muoversi, i sindacati ottengono nuove regole per la loro azione contrattuale nazionale e aziendale. Torna ad assumere centralità il contratto nazionale di categoria. Il doppio livello di contrattazione prevede infatti sia il CCNL a predeterminare la definizione di ambiti, tempi, materie e istituti del contratto collettivo aziendale. I sindacati ottengono anche un altro elemento di democrazia sindacale attraverso la realizzazione di rappresentanze sindacali unitarie (RSU) in tutte le organizzazioni produttive con più di 15 dipendenti.
Il sindacato esce dalla crisi dei primi anni Novanta, dunque, con una ridefinizione del proprio ruolo e del proprio campo di intervento. Assetto che però mostrerà rapidamente la propria insufficienza di fronte all’emergere di una sostanziale precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Nello stesso periodo avviene un’altra trasformazione tutta interna alla CGIL. Finita l’epoca delle correnti di partito e sulla scia del movimento degli autoconvocati della seconda metà degli anni Ottanta, prende campo nell’organizzazione un nuovo modo di discutere e di organizzare il dissenso: le aree programmatiche su base confederale. Al Congresso del 1991 per la prima volta viene proposto un documento alternativo sostenuto da Essere Sindacato che si basa proprio sul rifiuto dello scambio nuova occupazione-riduzione salario e ribaltamento della gerarchia sindacale verso un modello consiliare. Sarà proprio la pratica dei documenti alternativi nata in quegli anni a caratterizzare il dibattito interno in CGIL per il decennio successivo.

I tirocinanti in Lombardia: avviamento al lavoro o manodopera sottocosto? - di Giorgio Ortolani

Sono stati 78.000 i tirocini attivati in Lombardia da novembre 2014 a novembre 2015. Vediamo da vicino come è stata utilizzata questa forma di avviamento al lavoro nella regione.
I tirocini extracurricolari (una delle forme dei tirocini) sono stati introdotti per offrire l’opportunità di apprendere un lavoro e dovrebbero favorire l’inserimento dei lavoratori all’interno dell’azienda che ne usufruisce
. La durata del tirocinio può essere di 6 mesi rinnovabili sino a 12. Le aziende che utilizzino i tirocinanti non dovrebbero superare il numero di 1 tirocinante per imprese sino a 5 dipendenti, di 2 tirocinanti per imprese da 6 a 20 dipendenti e i tirocinanti non potrebbero superare il 10% dell’organico per imprese con più di 20 dipendenti. I tirocinanti non possono sostituire i lavoratori con contratti a termine nei periodi di picco delle attività né sostituire il personale nei periodi di malattia, maternità, ferie o infortuni, o per ricoprire ruoli necessari all’organizzazione.

Dei 78.000 tirocini attivati in Lombardia in un anno hanno trovato occupazione il 50,9 (39702). Il 27,2 (10.798) sono stati assunti a tempo indeterminato; il 24,6% (9766) sono assunti in apprendistato, quindi dopo essere stati formati per sei mesi vengono di nuovo formati per anni; il 5,5% (218) in somministrazione (interinali); il 17% (674) come nuovo tirocinio; il 21% (833) assunti a tempo determinato.
In Lombardia i tirocinanti con meno di 20 ore settimanali ricevono un contributo minimo di 300 euro; per contratti di più di 20 ore il contributo minimo è di 400 euro. Sono le aziende utilizzatrici che corrispondono questa somma ai lavoratori. 
Il costo di un lavoratore a tempo determinato part-time per 20 ore di lavoro sarebbe per le aziende (tra stipendio e contributi) circa 3 volte tanto. (1)

I tirocinanti tra i 15 e i 29 anni possono usufruire dei contributi previsti da “Garanzia Giovani” a secondo della durata del tirocinio, ovvero
 400 euro al compimento del 120° giorno, 
800 euro dopo 150 giorni, 1.200 euro dopo 180 giorni, 200 euro per ogni mese successivo.


Il costo per l’azienda, in caso di avviamento di tirocinanti che rientrano in “Garanzia Giovani”, si riduce (grazie al contributo dello Stato, quindi della collettività) ad 1/6 di quanto le stesse aziende avrebbero dovuto corrispondere per attivare un rapporto di lavoro a tempo determinato o per usufruire di lavoratori in somministrazione (interinali).

Il tirocinio è quindi una “tipologia contrattuale” molto vantaggiosa per le imprese. Se ciò avvenisse nel rispetto dei vincoli imposti dalla norma, forse potrebbe anche essere giustificato: si tratta infatti di un impegno per l’azienda a istruire e formare, nei sei mesi di tirocinio, un lavoratore. Lavoratore che poi potrà essere inserito o meno nell’impresa.


Infatti il lavoratore, alla fine del tirocinio, acquisisce alcune capacità che potranno essere utili nel suo percorso lavorativo, sempre che il tirocinio venga svolto per attività un medio o rilevante contenuto professionale. Ma la legge non prevede (contrariamente all’apprendistato) alcun obbligo di assunzione, neppure minimo, per le imprese che abbiano utilizzato tirocinanti.


Imprese poco corrette potrebbero ricorrere al tirocinio per avere forza lavoro ad un terzo (1/6 se con “Garanzia Giovani”) del costo di un’assunzione regolare.
La cronaca di tutti i giorni, purtroppo, ci dà conto che di imprese poco corrette ce ne sono e non poche. Diventa quindi essenziale la funzione di controllo dei soggetti proponenti il tirocinio sulle aziende ospitanti e della Regione sui tali soggetti promotori che dalla Regione sono state autorizzate a svolgere tale funzione. In Lombardia si tratta di 340 operatori accreditati ai servizi al lavoro, che vanno dalla Man Power/Gi Group/ Adecco e altre grosse aziende con decine di sedi in Lombardia ad agenzie formative di provincie e comuni, sino a piccoli operatori espressioni di realtà private e religiose.

Questi operatori, così come le imprese che utilizzano “Garanzia Giovani”, ricevono contributi per le attività connessa all’avviamento del personale nelle aziende utilizzatrici dei tirocinanti avviati. In mancanza di un sistema che garantisca un reale controllo sulla corretta applicazione dei vincoli imposti dalla normativa sui tirocini, queste imprese qualora dovessero seriamente, come dovrebbero fare, esigere dalle aziende utilizzatrici il rispetto delle norme rischierebbero di perdere i loro clienti.

Tra i tirocini attivati nell’ultimo anno il 20,7% è stato attivato nel commercio, il 17,7 nel manifatturiero, il 10,8% nel professionale tecnico e scientifico e il 7,7% nella ristorazione.
Circa il 30% dei tirocini ha quindi riguardato i lavoratori dei servizi, del commercio e della ristorazione.

La Filcams di Milano sta ricevendo sempre più segnalazioni di lavoratori che hanno svolto tirocini: da un’analisi della documentazione e dei racconti di questi lavoratori, ci stiamo convincendo che buona parte dei tirocini attivati presentino vizi sia procedurali che sostanziali.
Ricordiamo che in caso di violazioni (2) il personale ispettivo “dovrà procedere a riqualificare il rapporto come di natura subordinata con relativa applicazione delle sanzioni amministrative applicabili in tale ipotesi (come ad esempio in tema di Libro Unico del Lavoro, prospetto di paga e dichiarazione di assunzione), disponendo al recupero dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi così omessi”.

Purtroppo in presenza di scarsi o inesistenti controlli da parte dei soggetti promotori dei tirocini, le norme che li riguardano rischiano di essere per imprese poco corrette un lasciapassare per l’utilizzo di giovani e meno giovani in cerca di lavoro come manodopera a basso costo sostitutiva di altri lavoratori. Un ulteriore campo di azione e di tutela per riaffermare i diritti e combattere la precarietà. Un campo difficile quanto e più di altri…
(Tutti i dati provengono dal dossier dell’istituto di ricerca Eupolis della Regione Lombardia).

 

1 I dati citati provengono dal dossier dell’istituto di ricerca Eupolis della Regione Lombardia.
2 Circolare del Ministero del Lavoro n. 24/2011 e interpello del 27.1.2012, n. 3, nel caso ricorrano tutti gli elementi per una valutazione di non legittimità del tirocinio

Asdi: la nuova disoccupazione - di Antonija Qymyrguri

In principio era “indennità di disoccupazione”, chiara e semplice da capire e da applicare. Poi vennero l’Assicurazione per l’impiego (ASpI) e la Nuova ASpI (NASpI) che ha sostituito l’ASpI dal 1 maggio 2015 (eredità della legge Monti-Fornero). Con il DLgs 22/2015, in attuazione della Legge Delega sul Job’s Act, esordisce l’ASDI. In verità l’art. 16 del Decreto parla di riorganizzazione degli ammortizzatori sociali “in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati”. Ma...
ASDI è l’acronimo di “Assegno di disoccupazione”: si torna al termine disoccupazione ma si parla di ‘Assegno’ non di “indennità’”. L’ASDI è una misura assistenziale indipendente dal versamento dei contributi, finalizzata a “tutelare” i disoccupati in condizioni di bisogno economico attestate da un ISEE, in corso di validità, con un valore pari o inferiore a € 5000 (rimanere senza lavoro di per sé non è considerato stato di bisogno!). Quindi la domanda di ASDI, da presentare all’INPS esclusivamente on line, va accompagnata dalla dichiarazione sostitutiva unica (DSU) che è valida fino al 15 gennaio dell’anno successivo a quello della sua presentazione e che va rinnovata entro il mese di gennaio per evitare la sospensione dell’ASDI. Tanto premesso, esaminiamo alcuni aspetti dell’Assegno.

 

CHI SONO I DESTINATARI?

Sono i lavoratori che hanno esaurito l’intera durata della NASpI
a) appartenenti a un nucleo familiare in cui sia presente almeno un minore e/o
b) che abbiano almeno 55 anni e non abbiano maturato i requisiti di pensione anticipata (la vecchia anzianità) o di vecchiaia.
L’interessato non deve essere decaduto dalla NASpI né averne richiesto e ottenuto l’anticipazione. Sono esclusi dall’erogazione della prestazione i soggetti licenziati entro il 30 aprile 2015 che quindi possono usufruire di ASpI e Mini-ASpI.

 

PER QUANTO SPETTA?

Per non più di 6 mesi ma nei 12 mesi che precedono il termine del periodo di fruizione della NASpI. In ogni caso per non più di 24 mesi nei 5 anni precedenti il termine di cui sopra. Sì, è cervellotico e di complicata applicazione, molto simile all’elargizione di una elemosina. Prendiamo un lavoratore che percepisce:
- NASpI dal 02/05/2015 al 20/06/2015
- ASDI dal 21/06/2015 al 21/12/2015
- nuova NASpI dal 02/04/2016 al 17/05/2016 per rioccupazione dal 01/01/2016 al 01/04/2016
Al termine della NASpI (02/04/2016) nessun diritto a una nuova ASDI perché nel periodo 17/05/2015-17/05/2016 ne ha già usufruito per 6 mesi.
Ogni considerazione è superflua. Ricordiamo solo che stiamo parlando di lavoratrici e lavoratori ultra 55nni!

 

QUANTO SPETTA?

Si potrebbe pensare che sia consistente, essendo un sostegno a lavoratori privi di paracadute. Vediamo. L’importo dell’ASDI è pari al 75% dell’importo lordo dell’ultima NASpI inclusiva degli assegni familiari. In ogni caso non può essere superiore all’importo dell’assegno sociale (meno di € 450 mensili). Tale importo però può essere incrementato a seconda del numero di figli a carico, fino a un max di 163 euro, sempre che il genitore non richiedente non percepisca assegni per il nucleo familiare.
La ‘buona’ notizia è che l’importo non può essere inferiore ai limiti stabiliti per la Carta Acquisti (da euro 231 a euro 404 a seconda dei membri del nucleo familiare). Essendo un “aiutino” l’ASDI non prevede ne’ contribuzione figurativa ne’ assegni al nucleo familiare.
Sembra surreale? Non è finita. La concessione della prestazione è condizionata a un progetto personalizzato dei competenti servizi per l’impiego, che contiene specifici impegni nella ricerca attiva di lavoro (non è uno scherzo!), disponibilità a partecipare a forme di orientamento e formazione, accettazione di adeguate proposte di lavoro. La violazione di tali impegni, senza giustificato motivo, può portare alla decurtazione se non alla decadenza del beneficio.
Questo è l’impianto del sostegno a lavoratrici e lavoratori espulsi dal mondo del lavoro. Qualcuno, con l’aria da saputello, dice che l’Italia è fuori dalla crisi. Ma il filone della decontribuzione alle Aziende che assumono si è esaurito, al 31 dicembre 2016 sarà dichiarata la fine dell’indennità di mobilità, il popolo delle partite IVA è stato sostituito dalla generazione dei voucher, senza diritti e senza tutele, eppure c’è ancora chi ci crede. Alla prossima puntata…

Esselunga, non è sempre domenica - di Frida Nacinovich

Dopo la pubblicazione sul numero 3 di “Reds” degli articoli del compagno Mario Cuomo della FILCAMS di Milano sulla vertenza Esselunga sulle aperture domenicali, il periodico confederale di Lavoro Società, “Sinistra sindacale”, è tornato sull’argomento all’interno della rubrica Officina del lavoro con un’intervista che oggi anche noi pubblichiamo, sia pure con qualche piccola variazione. Il personale Esselunga è oggi impegnato nella difficile vertenza per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro. La stessa gestione intelligente delle domeniche lavorative raggiunta con l’accordo aziendale dipende in buona parte da come andrà il contratto poiché è nel contratto nazionale che sono i punti di riferimento che hanno consentito il passo in avanti. [ndr]

All’Esselunga litigano i padroni, è da antologia lo scontro tra il fondatore Bernardo Caprotti e i suoi figli. Peraltro il marchio Esselunga, in mezzo secolo di storia, si è conquistato un posto in prima fila fra le aziende della grande distribuzione. Negli anni della crisi, il settore ha subito meno degli altri gli effetti dell’impoverimento generale del paese. Lo slogan “Esselunga prezzi corti” ha funzionato, a tal punto che in Toscana - complice la concorrenza con l’altro colosso della grande distribuzione, Unicoop Firenze - le famiglie possono fare la spesa spendendo molto meno di quanto accada nelle altre regioni italiane.

L’ultranovantenne Caprotti - autore del memorabile pamphlet “Falce e carrello” contro gli eterni rivali delle cooperative - ha fondato un impero che ha i suoi punti di forza anche in Lombardia. All’Esselunga milanese di via Losanna lavora Alessandro Musio: “Sono entrato in azienda nel 2000. Negli ultimi tempi un po’ di preoccupazione sul futuro del gruppo si respira tra i dipendenti”. Effetto dei tanti colpi di scena in tema di eredità, ma il patron Caprotti ha sempre prevalso per la sua lungimiranza.

Così è stato anche di fronte alla contestata liberalizzazione delle aperture dei punti vendita nei giorni festivi. Nei supermercati della sua catena, a partire dal 2012, Caprotti ha iniziato a tastare il terreno procedendo all’inizio solo con qualche apertura domenicale, solo in alcuni negozi, e solo di mattina. Dal 2014 in poi, i supermercati Esselunga più grandi sono aperti tutte le domeniche, e tutto il giorno. Ma l’azienda è riuscita a coprire le domeniche con personale volontario. In cinque punti vendita però l’azienda applica già da diversi anni l’articolo 141 del Ccnl, con la gestione unilaterale dei presidi. “Una buona parte dei contratti di assunzione - spiega Musio - è a tempo indeterminato, full time e senza l’obbligo delle domeniche. L’accordo dice appunto che chi lavora nei giorni di festa deve farlo volontariamente”. Sulle festività ‘speciali’, va da sé che il delegato Filcams Cgil abbia le idee chiare: “Secondo noi in certi giorni dell’anno dovremmo essere tutti chiusi. Abbiamo dei valori, e non intendiamo rinunciarci”.

A gennaio è stato sottoscritto con la direzione Esselunga (un’azienda forte oggi di circa 22.500 addetti in tutta Italia) un accordo nazionale sulla regolamentazione del lavoro domenicale. “Per un anno verrà effettuata una sperimentazione, finalizzata ad armonizzare l’esigenza dell’impresa di garantire adeguati presidi, e quella delle lavoratrici e dei lavoratori di conciliare tempi di vita e di lavoro. Poi tireremo le somme”. Nel punto vendita di via Losanna lavorano centosessanta persone. “La crisi ha risparmiato gli incassi di Esselunga. I prezzi competitivi sono riusciti ad arginare la flessione delle vendite, i nostri supermercati sono sempre affollati”. Musio tratteggia una realtà che, nonostante le difficoltà della crisi, permette di guardare al futuro piuttosto serenamente. “Il nostro contratto integrativo prevede 37,5 ore di lavoro settimanali, due e mezzo in più per i neoassunti, fin quando non vengono stabilizzati. Il ricorso ai lavoratori stagionali è in percentuali minime, non è raro che quello della sostituzione sia solo il primo step verso un contratto a tempo indeterminato”.

Come in ogni grande supermercato, gli addetti sono impegnati in vari reparti, dall’ortofrutta al settore carni, dai latticini alla forneria. Musio è impiegato come ausiliare alle vendite nel reparto latticini. “Nei primi anni di lavoro ero addetto al banco della gastronomia, poi per problemi di allergia fui spostato in cassa. Dopo ancora sono stato addetto al settore drogheria, e ora infine ai latticini”.

Nonostante la vulgata, i lavoratori Esselunga non hanno mai rinunciato alla mobilitazione in difesa del proprio contratto di lavoro. “Ricordo assemblee affollatissime. Anche se gli scioperi - ammette sorridendo Musio - non sono particolarmente partecipati. Sai, gli stipendi degli addetti della grande distribuzione non sono alti”. E molti padri e madri di famiglia devono fare le nozze con i fichi secchi. E’ in questa vertenza, quella diffcile per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro che ora Il personale Esselunga è oggi impegnato. La stessa gestione intelligente delle domeniche lavorative raggiunta con l’accordo aziendale dipende in buona parte da come andrà il contratto, poiché è nel contratto nazionale che sono i punti di riferimento normativi che hanno consentito il passo in avanti sulle domeniche.