Piccole patrie e voti popolari - di Riccardo Chiari

Nel day after referendario, la Germania della grande coalizione popolari-socialdemocratici ha ribadito alla Grecia: “Non è in agenda la ristrutturazione del debito”. Dunque deve essere ripagato fino all'ultimo euro. E se Atene non ce la farà, il paese ellenico deve essere espulso in un modo o nell'altro dall'eurozona. Da segnalare, in proposito, le parole del numero due del governo Merkel, Sigmar Gabriel: “Tsipras ha distrutto l'ultimo ponte verso un compromesso tra Europa e la Grecia”. Gabriel, per inciso, è il numero uno di quella Spd che un tempo fu di Willy Brandt e di Helmut Schmidt.
Nel mentre, tutti ma proprio tutti gli economisti, compresi premi Nobel e dirigenti del Fondo monetario internazionale, fanno sapere con note ufficiali e interviste che la Grecia non ce la farà mai a ripagare tutto il debito, che per forza di cose andrà rinegoziato. Come uscire dal vicolo cieco? Per certo il più prestigioso quotidiano del pianeta, il New York Times, in un commento del suo board editoriale avverte che la Grecia va mantenuta nell'area euro, per il bene dell'Europa. Ed evidenzia: “Gli ultimi anni hanno mostrato come la sofferenza e l'austerity non hanno fatto niente per aiutare la Grecia e i suoi creditori. E nessuna ulteriore punizione a questo punto cambierà la realtà. Ora la cancelliera Angela Merkel, la leader politica più potente d'Europa, deve decidere se vuole rischiare la stabilità dell'Unione europea, consegnare la Grecia alla depressione economica, e minacciare i mercati globali, o fare la cosa razionale in questo momento cruciale”.
Gli Usa, va da sé, non dimenticano di considerare anche il fattore geopolitico, che vede il paese ellenico proprio sul delicatissimo confine sud-est dell'alleanza atlantica. Al tempo stesso sembrano sottovalutare che nei prossimi sei mesi ci saranno elezioni politiche sia in Spagna che in Portogallo. E soprattutto a Madrid l'esito del voto è già attesissimo, vista la presenza di Podemos, il movimento-partito guidato da Pablo Iglesias. Una forza politica alleata di Syriza all'interno della Sinistra europea, e che potrebbe raccogliere un'ulteriore spinta grazie al rifiuto della pesantissima austerity iberica.

La Grecia preferisce di no - di Riccardo Chiari

“Tutti erano d’accordo sull’ultima proposta che aveva fatto il governo Tsipras. Solo la Germania si è opposta”. Nel giorno post referendum la puntualizzazione di Giuseppina Paterniti, preparata corrispondente da Bruxelles di quel che resta del servizio pubblico televisivo italiano, strappa un altro pezzo della camicia di forza fatta indossare – con le buone o le cattive – a gran parte dei popoli del vecchio continente. Ironia della sorte quella stessa camicia di forza, i trattati di Maastricht del 1993, impediscono alla Grecia di essere buttata fuori dall’area dell’euro. Il sogno di una Germania che, dietro la facciata dell’intransigenza, inizia a pensare che sia finita la festa. Quella che le ha permesso di guadagnare un milione di posti di lavoro - compresi i ben poco dignitosi ‘mini job’ – mentre gli altri paesi dell’eurozona ne perdevano sei.
Ora la linea di confine fra la civiltà di questo pezzo di mondo - nata in Grecia - e la barbarie si è spostata al 20 luglio. Quel giorno la Banca centrale europea dovrà riavere indietro, con mezzo miliardo di euro di interessi, i 3,4 miliardi di un vecchio prestito. Quasi subito girato, in massima parte, ad altri creditori (dalle banche francesi e tedesche alla stessa Bce). Se quei soldi non torneranno indietro, lo statuto di Francoforte imporrà di interrompere anche la cosiddetta “Ela”, linea di liquidità di emergenza, che pure Mario Draghi ha confermato. Anche perché gli Usa e la Russia hanno chiesto che il dialogo vada avanti, e che Atene resti nell’euro. Non dimentiche, entrambe le grandi potenze, della costante secondo cui niente come l’incertezza è in grado di provocare disastri finanziari planetari. Lehman Brothers qualcosa ha insegnato.
Era una scommessa azzardata quella lanciata da Alexis Tsipras, eletto appena sei mesi fa e quindi nel pieno possesso del diritto di governare il suo paese? Per certo la carica dirompente della consultazione, mossa dal principio che in casi di emergenza la decisione finale va al popolo, ha costretto l’intero sistema dei media ad occuparsi dell’argomento. Con risultati per lo più desolanti. Ma l’acqua scava anche il sasso, e qualche goccia di consapevolezza è filtrata anche da qualche tv, qualche radio e un paio di giornali (il manifesto, il Fatto). Così, mentre i greci votavano “no” ad essere presi per il collo pur chiedendo, in stragrande maggioranza, di restare nell’euro, grazie ai format della Sky di Murdoch anche gli italiani hanno potuto esprimersi. In perfetta sintonia con i cugini mediterranei. Guarda un po’.
Vista da sinistra, con un po’ di ottimismo, andrà a finire che la data del 5 luglio, una domenica, finirà sui libri di storia. Magari con il richiamo laterale alla letteratura. All’immortale scrivano Bartleby: “Preferirei di no”.

"La mia pensione" secondo Boeri - di Trilli

Quando alla vigilia di Natale rimbalzò il nome di Tito Boeri quale futuro Presidente dell’INPS, sembra che Tiziano Treu, Commissario dell’Ente da meno di 3 mesi sia caduto giù dal pero. La domanda sorse spontanea: perché? Ai più attenti certo non era sfuggito il tema ricorrente in tutti i suoi interventi: l’ingiustizia sociale del sistema pensionistico italiano. No, non era la denuncia degli importi delle pensioni italiane, ancora più bassi per le donne. Il suo assillo è che i giovani lavorano per pagare le pensioni agli “anziani”, dimenticando ciò che aveva imparato da giovane militante della sinistra, che cioè il sistema col calcolo retributivo si basava su un principio di solidarietà tra generazioni. Ma il sistema di calcolo retributivo è già superato (vedi schema pubblicato in questa pagina).
Quindi dal 01/01/2012 viene applicato a tutti il sistema di calcolo contributivo. Ormai anche i sassi denunciano la pesantezza della riforma Fornero, ma ogni ipotesi, anche solo di modifica, sembra costare troppo allo Stato. L’insediamento di Boeri non è stato senza difficoltà perché il suo curriculum non rispondeva ai requisiti previsti dal DLgs 479/1994, ma una volta nominato ha subito imposto come Direttore Generale dell’INPS Massimo Cioffi, bocconiano, mai stato dipendente dell’INPS, mai occupatosi di welfare. Questa volta è la L. 88/89 che stabilisce i criteri per la nomina del Direttore Generale, a essere ignorata. Bocciata la richiesta di alloggio per Cioffi a spese dell’Ente, la Corte dei Conti vuole vedere chiaro sull’incarico ben retribuito di portavoce, che Boeri affida a Isabella Rota Baldini, bocconiana, collaboratrice di “lavoce.info”. Questo intervento della Corte mette in standby la nomina di Pietro Garibaldi, cofondatore di “lavoce.info”, a responsabile scientifico del progetto “VisitInps Scholars”, con cui l’INPS metterà a disposizione le sue banche dati per chi voglia lavorare a progetti di studio su previdenza, lavoro e politiche di welfare, con finanziamenti anche privati. E’ chiaro che l’esigenza di Boeri è quella di circondarsi di persone di fiducia. Nei suoi comunicati nulla è lasciato al caso. Sul sito www.inps.it balza all’occhio il servizio “LA MIA PENSIONE-Progettiamo il futuro”: dotatisi di PIN (si presuppone che proprio tutti abbiano un computer), si può simulare quella che sarà presumibilmente la pensione al termine dell’attività lavorativa, secondo le regole attuali. Cosa c’è di nuovo? C’è che i primi a potere usufruire del servizio sono i lavoratori con meno di 40 anni di età; dal 1° giugno quelli con meno di 50 anni; dal 1° luglio quelli con più di 50 anni. L’intento è chiaro: sponsorizzare la previdenza privata. Non è quindi un caso che in occasione del Festival dell’economia di Trento alla fine di maggio, si comunicava l’apertura delle sedi INPS locali per una sorta di “open day della previdenza”: si garantiva l’informazione gratuita sul proprio futuro pensionistico congiuntamente a “Pensplan Centrum S.p.A.”, progetto “per la promozione e lo sviluppo della previdenza complementare”. Non a caso mette sul sito il sistema di calcolo delle pensioni dei dirigenti, poi quello dei dipendenti delle FFSS, cioè quelle che vengono presentate come “privilegiate”. Il filo logico continua. Le pensioni ricche vanno calcolate con il sistema contributivo per ridurre l’ingiustizia generazionale. Secondo Boeri le pensioni ricche sono quelle a partire da € 2000 (lorde) al mese. Ma non basta. Vanno ricalcolare tutte le pensioni in essere e sullo scarto tra i due calcoli va applicata una trattenuta. Perché “chi ha avuto di più in passato oggi dovrebbe essere chiamato a dare un contributo maggiore”. Entro la fine di giugno Boeri, già ispiratore del Job’s Act, si è impegnato (quasi fosse il Ministro del lavoro) a consegnare una proposta di riforma delle pensioni. E le premesse non promettono niente di buono.

 

Situazione lavoratore/lavoratrice  Sistema applicato 

Chi, al 31 dicembre 1995, aveva già maturato almeno 18 anni di contributi 
Retributivo fino al 31 dicembre 2011, poi contributivo 

Chi, al 31 dicembre 1995, già lavorava, ma non aveva ancora maturato 18 anni di contributi
Retributivo fino al 31 dicembre 1995, poi contributivo

Chi ha iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995
Contributivo
   

Ariccia, novembre 1984. Nasce Democrazia consiliare - della Redazione di Reds

Il 16 e 17 novembre del 1984 un centinaio di delegate e delegati dei luoghi di lavoro e qualche funzionario sindacale si riunirono ad Ariccia, presso la scuola sindacale della CGIL nazionale e dettero vita a “Democrazia consiliare”, la prima area della CGIL che non faceva riferimento ad un partito politico, anche se la stragrande maggioranza di quei quadri sindacali aveva in tasca la tessera di una delle formazioni della nuova sinistra italiana, Democrazia proletaria. Anche se “Democrazia consiliare (…) si presenterà formalmente per la prima volta al congresso del 1986, con valanghe di emendamenti al documento della maggioranza”. (1)
La riunione di Ariccia era il risultato del lavoro preparatorio di un gruppo di 18 tra dirigenti sindacali e delegati che avevano costituito mesi prima un comitato di coordinamento provvisorio che rappresentava l’area della sinistra CGIL in varie regioni e categorie (da Milano, dal Lazio, dall’Emilia-Romagna, dal Piemonte, dal Trentino, dalla Sardegna. E ancora dalla Campania, da Genova e da Pisa; metalmeccanici, pubblici dipendenti, ferrovieri, bancari) e della scelta – la cui responsabilità Luciano Lama assunse in prima persona - di consentire a quei compagni che non si riconoscevano più nelle posizioni della Terza componente di riunirsi dentro la struttura sindacale con la possibilità di utilizzare a quel fine le libertà sindacali e le risorse dell’organizzazione, così da consolidare il pluralismo della CGIL.
Ovviamente i documenti risentono del tempo in cui furono elaborati e molte tematiche rimandano allo scontro sindacale di quegli anni. Democrazia consiliare è ciò che sedimenta organizzativamente della componente radicale del “movimento dei consigli” che aveva stimolato e affiancato la CGIL nella battaglia in difesa della scala mobile manomessa dal governo Craxi, con il consenso di CISL e UIL. E stiamo parlando delle CISL e UIL di Pierre Carniti e di Giorgio Benvenuto, mica di quelle di Bonanni e Angeletti!
Tuttavia – come ha scritto nel suo Spine Rosse (2) Paolo Andruccioli, che con Matteo Pucciarelli nel suo Gli ultimi mohicani (3) è l’unico che abbia scritto di Democrazia consiliare - un primato innegabile di quel collettivo è l’aver segnalato con largo anticipo problemi che poi hanno caratterizzato il dibattito e la vita dei lavoratori italiani e della CGIL: “la compressione dei livelli salariali, l’aumento del decentramento e frammentazione del ciclo produttivo che determina frantumazione della struttura di classe: lavoratori precari, stagionali, estensione del lavoro nero e delle figure lavorative non protette, né regolamentate; ripresa del controllo sui lavoratori attraverso la riaffermazione delle gerarchie, della concorrenzialità tra lavoratori, finalizzata ad un aumento della produttività e dell’intensità del lavoro” (4).
Nel 1984, una discussione incentrata sul ruolo del segretario generale e sulle sue modalità di elezione non sarebbe nemmeno balenata nella testa di qualsivoglia attivista sindacale, ma con una determinazione che poi ha caratterizzato per anni il dibattito sindacale, Democrazia consiliare pone con forza la questione del ruolo dei Consigli, cioè della struttura democratica, unitaria ed elettiva dei lavoratori (non solo degli iscritti) nei luoghi di lavoro.
“Occorre difendere i consigli contro ogni tentativo di tendenziale esautorazione e affossamento a vantaggio delle sezioni aziendali. I consigli vivono la situazione di essere una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo di un’effettiva democrazia sindacale che esige non solo garanzie formali, pur decisive, ma una sostanza di coscienza politica che deve permeare i lavoratori, attraverso la ricostruzione di momenti di lotta e di dibattito politico, di rapporto collettivo che rompa la frantumazione individualistica operata dalla ristrutturazione padronale.” (5)
Questa posizione suona ancora più attuale oggi, perché il nodo del ruolo delle Rappresentanze unitarie dei lavoratori nella definizione delle piattaforme aziendali e nella contrattazione e del loro essere terreno di lotta politica tra i lavoratori è uno dei nodi irrisolti della prossima conferenza d’organizzazione…
Qualunque siano state successivamente le scelte di quei compagni che dettero vita la coordinamento provvisorio, a loro e a quanti dietro le quinte lavorarono a mettere in piedi l’assemblea di novembre 1984 va il merito di aver contribuito a fare della CGIL per i 30 anni successivi un’organizzazione viva e pluralista che non ha avuto bisogno, nonostante tutto, di cambiare nome e ragione sociale per adeguarsi ai tempi nuovi!

1 Andrea Montagni, Le cinque bandiere (1967-2013): Note di vita e appunti raccolti e ordinati da Frida Nacinovich. Milano, Punto rosso, 2014
2 Paolo Andruccioli, Spine rosse: Breve storia della minoranza della CGIL (1978-2006). Roma, Ediesse, 2008;
3 Matteo Pucciarelli, Gli ultimi dei mohicani: Una storia di Democrazia proletaria. Roma, Alegre, 2011
4 P. Andruccioli, op. cit. , pag. 55
5 “Per la democrazia consiliare”, in P. Andruccioli, op. cit., pagg. 248-249

Un futuro di appalti, un futuro senza diritti e senza qualità - di Alessandro Rossi

Hanno preso servizio i nuovi Direttori generali di Asl e Aso piemontesi. All’insediamento hanno salutato i loro “collaboratori” medici, infermieri, operatori sociosanitari, funzionari e impiegati di ogni ordine e grado. Tutti sono corsi a tirar fuori dai cassetti i camici migliori e i cartellini identificativi lasciati a lungo nei cassetti. Alla cerimonia mancavano le figlie e i figli di un dio minore, presenze invisibili, non invitate e non volute: i lavoratori e le lavoratrici appaltati, quelli dei servizi che vengono appaltati a ditte private perché non core business, non importanti insomma, le donne delle pulizie, i guardiani, i centralinisti, tanti sportellisti e operatori dei call-center.
I megadirigenti della Sanità farebbero bene a conoscerli meglio ed avere maggiori rapporti con loro; infatti, presto, i lavoratori appaltati saranno la maggioranza e gli ultimi dipendenti pubblici si ritroveranno in una riserva, destinati all’estinzione…
Qualcuno pensa che per “risolvere” i problemi di bilancio della Sanità basti pagare poco, anzi meno di poco, i lavoratori così si ottengono conti in ordine e servizi che girano, si fa per dire…
Il governo ha dato una bella mano bloccandone da anni i rinnovi contrattuali, ma nonostante la campagna martellante contro i “privilegi” dei lavoratori pubblici, questi ultimi con incredibile egoismo paio­no rifiutare ogni ipotesi di lavoro quasi gratuito. Hanno addirittura l’ardire di rivolgersi ai sindacati quando vedono violati quotidianamente i loro diritti!
Ma la soluzione del problema, per gli assessori, è a portata di mano nella sua “semplicità”! Basta esternalizzare tutto l’esternalizzabile con bandi di gara al massimo ribasso, così al massimo da rasentare l’osceno.
E per ottenere servizi pagati al limite della decenza basta tagliare le ore, sforbiciando fino a quando il tempo minimo per pulire una camera di degenza in un ospedale diventa così esiguo che l’operatrice si chiede se potrà passare lo scopettone sotto il letto o se dovrà pulire il comodino.
Ma queste quisquilie non toccano quelli per cui il fine ultimo è avere un bilancio in fantastico pareggio, poco importa se ottenuto con una lungimiranza pari a zero e con la miopia di chi ritiene che il suo compito si esaurisca nell’immediato dei conti che tornano. Poco importa che un ambiente ospedaliero poco sanificato, o sanificato male, significhi l’aumento esponenziale delle infezioni ospedaliere, che porteranno al prolungamento della degenza del paziente colpito, del suo rapido ritorno in corsia dopo la dimissione o peggio…
Quando si tagliano le ore dedicate alle pulizie del 40, 50, 60 per cento si ottengono magari appalti delle pulizie che economicamente sono un capolavoro, ma non si può certo pretendere che in due ore si riesca a fare il lavoro che prima si faceva, a malapena, in quattro.
Se poi queste lavoratrici e questi lavoratori pagate quattro soldi e impiegate due o tre ore la settimana andranno ad ingrossare le file dei lavoratori poveri (coloro i quali pur avendo un regolare lavoro non ricevono un salario tale da consentirgli una esistenza libera e dignitosa) poco importa, e poco importa se i soldi risparmiati sulla loro pelle usciranno dalla finestra, dopo essere rientrati dalla porta, in forma di spese aggiuntive per l’assistenza e di mancato introito fiscale ancora meno. E se poi gli operatori sociosanitari nel bel mezzo di una terapia dovranno dare anche una pulita al pavimento, le infermiere compilare qualche scartoffia mentre inseriscono un catetere e i medici imparare ad asciugarsi il sudore da soli, perché l’infermiere sta sanificando la sala operatoria, pace…
Con lo stesso spirito si procede verso l’affidamento in convenzione a privati, coinvolgendo anche il cosiddetto “privato sociale”. Diamo tutto in mano ai privati, che fanno filare i dipendenti, tanto in maggioranza sono soci lavoratori di qualche bella e sociale cooperativa. In sostanza, perché appaltare pezzo per pezzo, a casaccio qui e là? Appaltiamo l’intero ospedale con tutto il pacco di operatori, operatrici e compagnia. Conviene ed è più veloce. E i pazienti che portino pazienza, se no che pazienti sono?
Abbiamo iniziato questo articoletto con un taglio di amara ironia, o almeno ci abbiamo provato, perché ormai le lacrime le abbiamo piante tutte e cerchiamo anche di sorridere.
Gli scenari descritti non sono esagerati o fuori dal mondo, sono il presente e il prossimo futuro frutto di tagli esorbitanti sui bandi di gara, della guerra spesso persa, delle Direzioni Sanitarie contro le Direzioni amministrative, di una tragica mancanza di lungimiranza, delle ricadute sui servizi che non garantiranno più il minimo essenziale ponendo a rischio la sicurezza e l’integrità della persona, sia essa utente sia operatore, delle ricadute sociali dei lavoratori degli appalti, dell’indiretto disagio e carico aggiuntivo sugli operatori pubblici.
L’idea di privatizzare la Sanità Pubblica è già presente, in forma indiretta, strisciante, sotterranea. Volere appaltare tutto il possibile significa arrivare al punto zero. O sono sciocchi o in malafede; nessuno è in grado di gestire la sanità come un’azienda privata nella quale i profitti devono superare i costi, a meno di speculare sulla vita e sulla morte delle persone.