E’ parte integrante della troika, insieme a Commissione europea e Banca centrale europea. Eppure il Fondo monetario internazionale, ogni tanto, si smarca. Perché a Wasghington, dove ha la sua sede, è solare la differenza fra i buoni risultati della cosiddetta “Obanomics” negli Usa, e gli esiti disastrosi delle politiche di austerity nell’Unione europea. Ora l’ufficio studi del Fmi torna all’attacco con il rapporto dal titolo “Riformare la gestione di bilancio nell’Unione europea”. Sotto accusa c’è la stesura di regole comuni della politica fiscale, e l’obbligo di rispettarle. Guarda caso, il cuore del dissidio fra Bruxelles (e Berlino) e Atene. A fronte della pletora di provvedimenti adottati dalla Ue (trattati, patto di crescita e stabilità del 1997, riforme del 2005, Six Pack del 2011, Fiscal Compact del 2012, Two Pack del 2013 ecc), che alla fin fine vengono disattesi un po’ da tutti, il Fmi propone due sole regole: il rapporto debito/pil, e un tasso predeterminato di crescita della spesa pubblica, abbastanza flessibile da poter essere usato anche per contrastare una recessione. Con queste due sole regole, cadrebbe come un castello di carte la teoria dell’austerity che predica il taglio della spesa pubblica e l’aumento delle tasse per rientrare dal debito. Teoria contestata alla radice dal ministro economico greco Yanis Varoufakis, pronto a osservare che in questo modo si aggrava la crisi invece che uscirne. Mentre il solo modo di venirne fuori è puntare sulla crescita economica, e per fare questo lo stato non può tagliare la spesa perché deprime il pil, né aumentare le tasse. Ma attenzione: nel breve la gestione politica del Fmi non cambierà. Così Atene dovrà aspettare fino a quando non ci sarà finalmente un clima politico in Europa che renderà possibile l’unica soluzione della crisi: un sostanziale stralcio del debito che la Grecia ha nei confronti delle istituzioni pubbliche (Bce, lo stesso Fmi, altri governi), così come è stato fatto per il debito privato. Senza crocifiggere ulteriormente il popolo greco.
Il problema è politico. Lo dimostra l’analisi fatta sull’insospettabile, confindustriale Sole 24 Ore da Adriana Cerretelli: “La Grecia, 2% del pil dell’eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà. Ma quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro ed Europa. Non sarebbe meglio una sana realpolitik, meno costosa per tutti?”.
Di più: secondo l’Ocse – non secondo Yanis Varoufakis - la Grecia ha fatto le riforme che doveva fare. Ha poi migliorato di quasi 20 punti il saldo strutturale (con oggi un surplus, al netto degli interessi, che le consente di guardare ad un eventuale default con un po’ più di serenità), e soprattutto lo ha fatto con una riduzione monstre della spesa. Il programma della troika è stato applicato meglio rispetto alla media dell’eurozona. Meglio dello stesso “alunno modello” sempre indicato dalla troika Ue-Bce-Fmi, la Spagna dei popolar-conservatori di Mariano Rajoy.
Il problema è politico. Perché, se la Grecia tiene la posizione, viene dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste, ed è praticabile. Ma questo provoca, per quei governi che hanno seguito pedissequamente le ricette dell’austerity, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo Atene è sola contro gli altri 18 paesi dell’eurozona. E quelli più scatenati sono la Spagna e il Portogallo, terrorizzati da una possibile vittoria delle sinistre alle prossime elezioni politiche, insieme a quelli dell’est, gli ultimi arrivati nell’area dell’euro.
Fino ad oggi i greci hanno sempre rispettato le scadenze con i creditori. Ma di fronte alla pretesa della troika di continuare a perseguire un avanzo di bilancio primario insostenibilmente alto (più del 2% del pil nel 2016, e addirittura il 3% negli anni successivi), l’unica via d’uscita per Atene sarebbe fare marcia indietro su lavoro e pensioni. Sul principale motivo per cui Syriza ha vinto le elezioni.
Al tempo stesso, nonostante le ripetute richieste, Bruxelles e Francoforte non sbloccano i quasi 2 miliardi di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci. Non vogliono fare un’anticipazione sui 7,2 miliardi che sono l’ultima tranche del programma di aiuti. E non aprono all’innalzamento a 15 miliardi della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che darebbero fiato al governo Tsipras e al sistema economico ellenico. Il tutto mentre la Bce, con il quantitive easing, assicura 1.140 miliardi fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora – per le banche europee. Escluse quelle greche (e cipriote): l’ennesima riprova che il problema è solo politico.