Insieme ai diktat tedeschi, avallati da Francia e Italia, la notizia che ha colpito maggiormente la pubblica opinione dopo il viaggio di Tsipras nelle capitali europee è stata la mossa dalla Banca centrale europea. L'istituto diretto da Mario Draghi ha avvertito che non accetterà oltre l'11 febbraio i titoli di stato ellenici come garanzia per ottenere finanziamenti. Va da sé che il messaggio, che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche di Atene, deve essere valutato pensando che quello stesso giorno è previsto a Bruxelles l'incontro dell'Eurogruppo, snodo fondamentale del confronto/ scontro fra la Grecia e l'Ue.
A ben guardare, di fronte alla fuga dai depositi che si è già innescata prima del voto greco, è entrato in azione il meccanismo dell'”Ela” (emergency liquidity assistance), con finanziamenti di emergenza forniti dalla stessa Bce, tramite la banca nazionale di Atene. Ma che vanno approvati a maggioranza qualificata, e rinnovati ogni due settimane.
Per certo comunque non hanno torto gli economisti “eterodossi”, pronti a criticare il fatto che la Bce ha chiuso il credito e si è rimangiata di fatto la decisione espansiva sul quantitative easing. I difensori della linea di Francoforte ribattono che l’Eurotower sta applicando le sue regole. Ma appaiono in difficoltà, di fronte all'osservazione che in questo modo la Bce torna alla lettura monetarista della crisi. Senza la possibilità, quindi, di affrontare l’eccezionalità della situazione. Cioè la crisi – che è europea e non solo greca - la mancata crescita che ne deriva, e di conseguenza l'impossibilità a restituire il debito contratto.
Eppure Berlino insiste: Atene deve raggiungere un avanzo primario del 3% quest'anno e del 4,5 l'anno prossimo. Deve ridurre di altre 150 mila unità l'occupazione nel settore pubblico. Deve tagliare il salario minimo, ancorare ancor più strettamente le pensioni al pagamento dei contributi, accelerare le privatizzazioni e adattare le tariffe elettriche ai prezzi di mercato. “I negoziati saranno difficili”: l'osservazione lapalissiana del polacco Donald Tusk davvero non rende l'idea del vicolo cieco in cui, guidata dalla Germania, si è infilata l'intera Unione europea.
Per riassumere in poche parole quello che è accaduto nel primo viaggio europeo di Alexis Tsipras da neo primo ministro ellenico, bastano alcune dichiarazioni. Al primo posto c'è la richiesta della Grecia di una rinegoziazione del suo debito: “Noi possiamo pagare – ha spiegato Tsipras – ma chiediamo di farlo quando la ripresa sarà un dato di fatto assodato, per tutta l'Unione europea”. Sulla stessa linea il suo ministro finanziario Yanis Varoufakis: “Noi vogliamo rispettare le regole del gioco. Ma è ormai certo, visti i risultati fallimentari che hanno prodotto, che queste regole devono essere cambiate”.
Di fronte alla richiesta greca di aprire una discussione generale cercando al tempo stesso di ottenere un “accordo provvisorio”, con dilazioni dei termini di pagamento dei debiti in cambio dell'impegno ateniese a un programma “radicale” contro gli sprechi, la corruzione e l'enorme evasione fiscale del paese, la risposta della Germania è stata disarmante. Dal falco finanziario Wolfgang Schaeuble è arrivata né più né meno che una provocazione: “Voi greci dovete lavorare con la troika”. Cioè l'esatto contrario del programma elettorale, vincente, di Syriza. Ma non meno arrogante è stata Angela Merkel, le cui telefonate preventive hanno accompagnato l'intero tour continentale di Tsipras. Con un messaggio politico di totale chiusura, così sintetizzabile: “Non dobbiamo trattare su niente”.
Il diktat della Germania è presto detto: la Grecia non solo deve garantire di rimborsare il debito, ma deve anche mantenere tutti gli impegni di tagli e privatizzazioni che i precedenti governi avevano concordato con la troika. Per giunta, la stessa Merkel si premura di far sapere: “Abbiamo posizioni comuni con Hollande e Renzi”. Insomma c'è una generale contrarietà a sconti e rinvii, come conferma anche il presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico – e tedesco - Martin Schulz: “Se la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l'altra parte non è più obbligata a rispettarli, pertanto il paese non sarà più in grado di finanziarsi”.
La reazione di Atene non si è fatta attendere: “La Grecia – ha detto forte e chiaro Alexis Tsipras – non può essere ricattata. E non intendiamo ascoltare prediche”. Parole che hanno infiammato una piazza Syntagma stracolma, che si è affollata in sole due ore dopo una chiamata a raccolta sui social network. In quello che appare come il primo atto di uno scontro politico in piena regola. Con i cittadini europei ellenici (e non solo loro, basti pensare agli spagnoli di Podemos e tutte e forze della Sinistra europea) da una parte, e la troika con i governi degli altri principali paesi europei – Germania, Francia, Italia – dall'altra. Con le prossime tappe già fissate: l'11 febbraio con la riunione dell'Eurogruppo, e il giorno seguente il vertice dei capi di governo della Ue. Faccia a faccia Merkel, Tsipras, Hollande e Renzi.