Sos cemento selvaggio - di Riccardo Chiari

Convincere i governi nazionali - e a cascata gli enti locali - a fare marcia indietro sul modello di sviluppo messo in pratica negli ultimi trent’anni, nonostante le mille riprove della sua insostenibilità, è missione quasi impossibile. Eppure da un capo all’altro del paese continuano a fiorire movimenti che trovano la loro “ragione sociale” nella difesa dell’ambiente, e in generale di un ecosistema reso sempre più fragile dalla cupidigia dell’uomo. In prima fila ci sono le realtà di base – donne e uomini di ogni età riuniti in comitati o in associazioni – che si battono con intelligenza, determinazione e anche con specifiche competenze, per ottenere uno stop al cemento selvaggio e al consumo del suolo. Difendendo quanto resta di un territorio violentato da decenni di continue aggressioni.
L’ultimo esempio della battaglia contro il sempiterno partito del mattone arriva dal Veneto. Grazie a una inchiesta del periodico “La Nuova Ecologia”, si scopre che a Verona è prevista la costruzione di ben 4 milioni di metri cubi di cemento, suddivisi fra un 25% di edifici residenziali e un 75% di strutture direzionali, commerciali e alberghiere. Gli amministratori scaligeri lo definiscono “sviluppo pilotato”. Ma dietro queste due parole l’Osservatorio ambiente e legalità e il circolo veronese di Legambiente denunciano un autentico sacco della città, all’insegna della speculazione. Ad ulteriore riprova, arriva anche la notizia delle dimissioni del vicesindaco con delega all’urbanistica Vito Giacinto, costretto ad abbandonare la carica a causa delle inchieste avviate dalla magistratura sul suo operato. Indagini spesso aperte grazie alle circostanziate denunce di movimenti e associazioni.
Il certosino lavoro di queste realtà di base è agevolato dalla profonda conoscenza del territorio in cui operano. E il loro esame, fortemente critico, non si ferma alla denuncia ma non di rado offre alle istituzioni anche progetti alternativi. In grado di difendere e tutelare il territorio e l’ambiente da progetti di presunto sviluppo che, nei fatti, sono altrettante aggressioni al tessuto urbano, rurale e paesaggistico.
Nonostante la tangibile e comprovata popolarità delle loro battaglie civili, le istanze dei movimenti trovano sempre difficoltà a superare le spesse mura dei palazzi dei potere. Anche i casi di pur relativo ascolto - ad esempio in Toscana la giunta di Enrico Rossi vuole (fra resistenze di ogni sorta) rivoluzionare in positivo la legge urbanistica, ed ha approvato un piano paesaggistico all’avanguardia per tutele e vincoli - possono essere considerati come rondini che non fanno primavera. Eppure le vertenze contro il cemento selvaggio e per un buongoverno del territorio continuano a moltiplicarsi, dalle Alpi alla Sicilia. E’ il segnale, più che positivo, della vitalità dei movimenti. Pronti ad affondare, come un coltello nel burro, nelle sciagurate politiche di un paese che infatti, cronache alla mano, è sempre più in dissesto idrogeologico.

Salviamo il paesaggio

In poco più di due anni è riuscita a connettere quasi mille realtà di movimento, di cui una novantina di rilievo nazionale e ben 821 fra comitati e associazioni locali. Si tratta della rete “Salviamo il paesaggio”, nata nel segno dalla civile e sacrosanta battaglia per il recupero del patrimonio edilizio esistente nei singoli comuni, con la sua valorizzazione attraverso meccanismi di riconversione anche sociale. E che ora sta iniziando a porsi obiettivi più generali. Del resto fin dalla fondazione il “Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio” si era connotato anche come movimento teso a salvare il territorio dalla deregulation e dal cemento selvaggio.
Tanto da contestare alla radice sia la “legge Obiettivo” e le sue procedure straordinarie per agevolare la realizzazione delle grandi opere, che la legge “Sviluppo bis” con i suoi incentivi ancora a favore delle grandi opere.
Spesso e volentieri inutili, ma sempre dannose.
All’ultima assemblea generale, che si è svolta nella primavera scorsa a Bologna, la rete Salviamo il paesaggio ha deciso di seguire un sentiero per tanti versi parallelo ad altre realtà, associative e di base, impegnate sugli stessi temi. A partire dalla “Rete dei comitati per la difesa del territorio”, che vede come autorevole portavoce un intellettuale del calibro di Alberto Asor Rosa. Certo il cammino non si presenta facile: fino ad oggi ad esempio la campagna per censire gli immobili sfitti, vuoti o non utilizzati ha visto interagire solo 600 degli oltre 8.000 municipi italiani. Meno del 10% del totale. “Ma noi andiamo avanti – spiegano gli attivisti – perché siamo convinti che le le amministrazioni debbano ridefinire i loro strumenti urbanistici”. In parallelo, resta all’ordine del giorno una possibile legge di iniziativa popolare dal titolo esplicito: “Salviamo il paesaggio”. Anche se il fronte istituzionale continua a latitare, visto che fra i quasi mille deputati e senatori solo una ventina di parlamentari (soprattutto di Sel e M5S) hanno sottoscritto la carta di intenti della rete.

Giuseppe Braga e la battaglia socialista a Monza - di Calogero Governali

Giuseppe Braga nasce a Monza il 7 febbraio 1869; compiuti gli studi elementari, viene avviato al lavoro come tessitore e da tale attività trae il suo sostentamento. Nel 1899 il sottoprefetto di Monza stila una scheda informativa sul Braga in quanto è ritenuto uno dei ‘caporioni’ del partito socialista della zona. Come socialista, è stato consigliere della ‘Lega dei figli del Lavoro’ di Monza (disciolta nel 1886) e della ‘Lega socialista’ (disciolta nel 1893). In questo stesso anno è tra i promotori della fondazione del ‘Circolo elettorale socialista’ e della Camera del Lavoro di Monza (nata il 13 ottobre 1893). La polizia lo ritiene un attivo e indefesso propagandista fra gli operai e i contadini delle idee di giustizia sociale e della lotta di classe, facendo molti proseliti. Prende parte all’organizzazione delle manifestazioni del partito socialista di Monza a sostegno dei moti siciliani dei “Fasci dei lavoratori” (gennaio 1894) e a quelle contro l’avventura coloniale etiopica, specie dopo la tragica sconfitta di Adua (marzo 1896). Gli ultimi quattro anni del secolo (marzo 1896 - dicembre 1900) sono tra i più tumultuosi e tragici della storia dell’Italia unita. Moti di piazza repressi nel sangue, attentati, un regicidio, ed altro ancora, delineano un fine secolo colmo di paura e di sangue ma anche aperto a grandi speranze per il riscatto del proletario. Alcuni di questi fatti clamorosi hanno come epicentro proprio il capoluogo brianzolo e vedono anche la partecipazione del Braga. A Monza il movimento operaio ha già conosciuto la durezza della repressione governativa, ma i fatti del ‘98 superano tutte le esperienze precedenti (persecuzioni, arresti, chiusure delle sedi sindacali, ecc.), perchè toccano l’apice della barbarie con l’uccisione e il ferimento di inermi manifestanti che chiedono la sospensione della partenza per i richiamati alle armi. Essere richiamati significa perdere anche il posto di lavoro. Il popolo monzese, oltre che per questo motivo, manifesta, soprattutto, per condannare i tragici fatti di Milano del 6 maggio 1898. In quel giorno a Milano i soldati hanno sparato contro dei manifestanti, che chiedono la riduzione del prezzo del pane, uccidendone due e ferendone 14, aprendo così quell’abisso di orrore che le successive manifestazioni popolari innescheranno e che culminano con l’ordine di Bava Beccaris di far uso dei cannoni contro la folla con un bilancio finale atroce di almeno 80 morti e 450 feriti (questi i dati ufficiali). Come detto, a Monza il 7 maggio si manifesta ed anche qui la polizia non esita a sparare contro inermi dimostranti (uccidendone 7 e ferendone 18). Una ricostruzione di questi tragici fatti viene fatta da Ettore Reina, segretario della CdL di Monza. Braga per questa sua attività viene arrestato, processato e condannato (come consigliere della Lega socialista a 4 mesi di confino, assolto poi in appello) e a 20 giorni di detenzione per la manifestazione nei tragici fatti del 7 maggio. Dopo i processi e la carcerazione entra a far parte dell’esecutivo della Camera del lavoro di Monza (aprile 1900), divenendone anche il custode. Comincia in questo periodo la sua attività di «gerente», diremmo oggi direttore responsabile, di molte testate sia politiche che sindacali (La Brianza, La Battaglia proletaria, …), tra queste c’è ‘L’Unione organo della classe degli impiegati e commessi di aziende private’ di cui è «gerente» dal 1904 al 1907. E’ cioè responsabile del giornale di categoria negli anni più turbolenti ma anche più significativi per la nascita della Federazione di categoria degli impiegati e commessi di aziende private. Il Braga in quanto responsabile della pubblicazione subisce numerosi processi per gli articoli pubblicati con condanne penali e multe pecuniarie. Nel 1907 si trasferisce a Milano mantenendo i contatti con Monza e continuando a dare il suo contributo al sindacato e all’emancipazione dei lavoratori fino all’affermarsi del fascismo e allo scioglimento di tutte le organizzazioni democratiche.

Per approfondimenti vedi : - «La voce del lavoro: vita di Ettore Reina», di Giuseppe M. Longoni, Roma, Ediesse, 2006, p. 51-73; - «Camerieri, commessi, impiegati… Sovversivi», di Luigi Martini, Roma, Promoart, 2010, p. 27-30;
- “L’Unione”, n. vari.

Appalti mense e pulizie delle scuole. Milano: la lotta non si ferma - di Giorgio Ortolani

Gli appalti e conseguentemente le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori che vi operano meriterebbero una maggior attenzione da parte dell’intera confederazione e del governo.
Dietro gli appalti e subappalti non ci sono solo lavoratrici e lavoratori, cui spesso vengono negati i diritti previsti dai contratti nazionali, ma l’intervento della criminalità organizzata che vede in un settore, sempre più provato dalla crisi e dalla spending review, la possibilità di intervenire avendo a disposizione liquidità proveniente da attività illecite. La cronaca di tutti i giorni offre numerosi esempi di quanto sta accadendo.
Per questo è importante, soprattutto in un momento come questo, che la Cgil e la Filcams continuino a verificare le normative legislative e contrattuali che le aziende sottoscrivono per partecipare ai bandi di gara, ma che poi non trovano riscontro nella realtà di tutti i giorni.
Il comune di Milano tramite Milano Ristorazione (di cui è proprietaria al 100%) ha appaltato nel 2011 la gestione di servizi di refezione, pulizia, accoglienza e ausiliariato delle scuole di Milano a 4 aziende: B&B, Colocoop, Multiservice e Servizi Integrati.
Queste aziende, alcune certificate SA 8000 (responsabilità sociale d’impresa), si sono impegnate, nell’assumere l’appalto, al rispetto dei contratti nazionali, delle normative a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e al rispetto delle clausole contenute nel contratto di appalto sottoscritto.
Milano Ristorazione deve, come tutti i committenti, verificare ed esigere che le aziende rispettino quanto sottoscritto, irrogando in caso di violazioni provvedimenti che possono arrivare alla rescissione del contratto.
Quindi tutto dovrebbe andar bene per le 1608 lavoratrici (1093 CCNL turismo e 515 CCNL Multiservizi) che garantiscono il servizio di ristorazione ai bambini che frequentano gli oltre 400 gli istituti di scolastici di Milano.
Così però non è. Le aziende stesse hanno ufficializzato su pressione delle OO.SS. che ben 357 delle 1608 lavoratrici (il 22%) sono assunte sotto l’orario minimo contrattuale (15 ore per il turismo e 14 per multiservizi). Dalle loro buste paga risulta però che buona parte di queste lavoratrici è chiamata ogni giorno ad effettuare lavoro supplementare.
Per questo la Filcams, dopo aver concluso negli ultimi mesi un positivo accordo che ha istituito un’indennità specifica per le circa 400 “referenti” dei singoli plessi scolastici, ha definito un piano di azione finalizzato a regolarizzare la posizione inquadramentale di tutte le lavoratrici, non solo di quelle che si rivolgono al nostra o alle altre OO.SS. perché sappiamo quanti siano le paure e i ricatti che queste lavoratrici vivono.
L’obbiettivo è di trasformare un problema personale legato a contratti individuali “volontariamente” sottoscritti dalle lavoratrici in un problema collettivo. Il sindacato deve occuparsi anche di chi non ha le conoscenze e il coraggio di richiedere ciò che gli è dovuto.
Per questo il 13 dicembre abbiamo voluto evidenziare la contraddizione tra il mancato rispetto dei contratti nazionali negli appalti di una città, Milano, la cui l’amministrazione comunale non perde occasione per ribadire la necessità del rispetto delle regole, per denunciare la pervasività del malaffare e delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore economico.
“Pisapia: la lotta all’illegalità inizia dal rispetto dei contratti negli appalti comunali”: è lo slogan che campeggiava sui volantini e manifesti dell’iniziativa del 13 dicembre.
Dall’amministrazione comunale milanese, dopo la nostra iniziativa, c’è stato ascolto e l’impegno a sollecitare la controllata Milano Ristorazione al rispetto delle leggi.
Ma come diceva Gandhi “i nostri pensieri per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengano trasformati in azioni”.
Entro il 10 febbraio si terranno gli incontri per verificare con le singole aziende le posizioni di tutte le lavoratrici e verificheremo se alle assicurazioni dateci corrisponderanno i fatti.
In attesa che il governo decida di affrontare i nodi legati ai lavori in appalto, con un occhio non solo ai possibili risparmi (spesso presunti più che reali), ma alle condizioni dei lavoratori che quei lavori sono chiamati a svolgere.
La Filcams, a partire dalle amministrazioni pubbliche, deve mettere tutti i committenti di fronte alle proprie responsabilità affinché non continui a perdurare quella pratica di abbassamento dei salari e dei diritti ormai connaturata alla pratica degli appalti e sub appalti che spesso il sindacato non riesce a contrastare adeguatamente.

Le lavoratrici, i lavoratori e le diverse opportunità pensionistiche - di Fulvio Rubino

Fatto nei numeri scorsi di Reds il punto sulle differenze, che sono fondamentali in un possibile passaggio da un tipo di lavoro all’altro, la questione sostanziale è quella relativa alle diverse opportunità pensionistiche tra cui si deve districare il lavoratore opportunamente supportato dal patronato Inca-Cgil.
Tali opportunità, che dipendono dalla posizione assicurativa personale del lavoratore, non sono semplici da affrontare di poche righe.
Bisogna partire dal requisito minimo fondamentale per accedere alla pensione: 20 anni di contribuzione. Possedendo tale requisito, all’età di vecchiaia, i lavoratori possono accedere alla pensione (nel sistema contributivo, per colore che hanno contribuzione solo dal 1996, possono accedere alla pensione anche sono solo 5 anni di contribuzione ma non prima di 70 anni e 3 mesi di età anagrafica).
Lo scenario che si può presentare è che il lavoratore, che ha lavorato prima come dipendente e poi come autonomo, o viceversa, e che in virtù di ciò ha avuto versamenti almeno in due casse differenti, potrebbe:
a) aver perfezionato il requisito minimo di 20 anni in tutte le casse;
b) aver perfezionato il requisito minimo di 20 anni solo in una cassa e non nelle altre;
c) potrebbe aver perfezionato cumulativamente il requisito minimo di 20 anni, non avendolo perfezionato in nessuna delle casse.
Nella situazione a), il lavoratore ha diritto a ricevere due pensioni autonome differenti, calcolate ognuna con le regole del fondo specifico. Se le casse sono tutte appartenenti all’Assicurazione Generale Obbligatoria gestite dall’Inps, allora l’istituto previdenziale mette in pagamento una sola pensione cumulando i due calcoli di pensione (art.16 della Legge n. 233/1990, cumulo della contribuzione accreditata nelle casse/fondi Ago della Gestione Inps). E’ fatta salva la possibilità di poter ricongiungere la contribuzione accreditata nella/e cassa/e autonome (dopo almeno 5 anni di lavoro dipendente) per avere effettivamente una sola pensione calcolata con le sole regole dei lavoratori dipendenti, ma questa opportunità potrebbe comportare un onere da pagare anche molto elevato. E’ fatto salvo, anche, il diritto, se non si posseggo i 18 anni di contribuzione al 1995, si posseggono almeno 15 anni di contribuzione di cui almeno 5 nel contributivo, di chiedere l’eventuale calcolo contributivo (opzione al contributivo).
Nella situazione b), il lavoratore ha diritto a ricevere una pensioni autonoma ed, eventualmente una pensione supplementare, calcolate ognuna con le regole del fondo specifico. Se le casse sono tutte appartenenti all’Assicurazione Generale Obbligatoria vale quanto già detto precedentemente relativamente all’art.6 della L.233/1990. Bisogna considerare che i fondi esclusivi (pubblico impiego e fondi speciali) non pagano la pensione supplementare ma pagano solo pensioni autonome con il perfezionamento del requisito minimo dei 20 anni. Per cui, se si possiede contribuzione in tale casse o si rinuncia ad ottenere un beneficio pensionistico oppure bisogna ricongiungere tutta la posizione assicurativa in una cassa inerente il lavoro dipendente oppure bisogna chiedere la totalizzazione di cui al Dlgs 42/2006. La ricongiungere, come già detto, permette di trasferire la contribuzione accreditata in una sola cassa relativa al lavoro dipendente per avere effettivamente una sola pensione calcolata con le sole regole dei lavoratori dipendenti, ma questa opportunità potrebbe comportare un onere da pagare anche molto elevato (la contribuzione delle casse autonome è possibile ricongiungerla dopo 5 anni di contribuzione effettiva da lavoro dipendente). La totalizzazione di cui al Dlgs 42/2006 permette di ottenere un beneficio pensionistico da qualsiasi contribuzione accreditata in casse/fondi diversi, senza pagare nessun onere, ma essa comporta, quasi sempre, il calcolo contributivo al posto di quello retributivo.
Nella situazione c), il lavoratore non avendo diritto a ricevere nessuna pensione autonoma e nessuna pensione supplementare (la pensione supplementare si può ricevere se si è titolare di un beneficio pensionistico autonomo), può solo chiedere di Totalizzare in base al Dlgs 42/2006, oppure cumulare tutte le gestioni in base alla Legge 228/2012 (riservato a coloro che non perfezionano il requisito minimo in nessuna cassa/fondo e che comporta un calcoli singoli per ognuna delle cassa/fondo con le regole proprie), oppure ricongiungere tutta la posizione in una cassa inerente i lavoratori dipendenti, fatto salvo quanto già detto l’art.6 della L.233/1990 nel caso le casse in cui vi sono accrediti sono tutte appartenenti all’Assicurazione Generale Obbligatoria.
Quando detto vale per la pensione di vecchiaia.
Se si vuol accedere alla pensione anticipata (nel 2013, 42 anni e 6 mesi per gli uomini ovvero 41 anni e 6 mesi per le donne) e si ha contribuzione in più casse non si può far altro che “mettere insieme” tutta la contribuzione cumulando in base alla L.233/1990, ove ne ricorrano i requisiti, ovvero totalizzando in base al Dlgs 42/2006, ovvero ricongiungendo pagando un onere.
Le opportunità aumentano e variano in presenta di contribuzione in gestione separata derivante da collaborazioni occasionali, coordinate e continuative o a progetto.
Infine, le valutazioni cambiano in presenza di danni alla persona o da lavoro.
La numerosità delle opportunità, la complessità delle scelte e l’importanza delle implicazioni che ne derivano imporrebbe di non praticare il “fai da te” per un argomento da cui dipende il benessere del futuro della propria vita. E’ necessario, invece, rivolgersi agli sportelli dell’Inca Cgil per valutare la propria posizione assicurativa (quale storia lavorativa e storia retributiva) ed effettuare le scelte più consone e vantaggiose.

(La prima parte del servizio di Fulvio Rubino a proposito di tutele previdenziali per i lavoratori autonomi e dipendenti è stata pubblicata sul numero 12/2013 di ‘Reds’; la seconda sul numero 1/2014)

esternalizzazioni: effetti perversi sui servizi pubblici - di Alessandro Rossi

A giugno scadrà l’appalto per la gestione del call center Sovracup. Gli operatori assieme alle Rsu ed al sindacato hanno da tempo iniziato a discutere degli scenari possibili che si verranno a creare nella fase del cambio appalto. Durante le numerose e partecipate assemblee si è sviluppata una discussione di più ampio respiro, una riflessione che si è allargata arrivando ad interrogarsi sulla effettiva utilità delle esternalizzazioni dei servizi pubblici. Nel tempo, nel colpevole e spesso interessato silenzio anche di una certa sinistra, le P.A. hanno allargato il ventaglio delle offerte di ghiotti, perché lucrosi, appalti di servizi ai privati. Dagli appalti, che gli addetti ai lavori chiamano “storici”, come le pulizie, si è arrivati ad esternalizzare, e per chi scrive la differenza sostanziale tra esternalizzare e privatizzare tutti i servizi non “core business” diventa sempre più sfumata. Con questo termine, tanto oxfordiano, si indica in realtà quasi tutto: gli sportelli, i call center, le portinerie, i servizi amministrativi, ma anche i servizi ospedalieri sanitari (le oss, gli infermieri e, se la tendenza non cambierà, presto anche i medici), come la vicenda Amos insegna. Questa tendenza delle P.A. e soprattutto della Sanità pubblica rischia di trasformarsi, se non lo ha già fatto, nella mazzata finale alla qualità dei servizi erogati: come si possono chiedere ad un operatore sottopagato - di fatto sfruttato da contratti pirata, stressato dalla precarietà insita nella insicurezza del proprio futuro - quella serenità, quell’orgoglio, quella professionalità che devono qualificare il lavoratore della Sanità pubblica?
Anche in questo momento a Torino esistono situazioni critiche al limite, anzi ormai al di là della decenza: basta infatti ricordare la vicenda dei portieri dell’ospedale Giovanni Bosco. Per la AslTo2 basta cambiare una virgola qui e là in un bando per trasformare la vita di trenta persone, per impoverirle, per asservirle. Questi lavoratori dopo avere prestato per anni con professionalità ed onore il proprio lavoro, che non è di semplice portineria ma ben più complesso, si sono visti proporre dalla ditta vincitrice del bando la decurtazione del loro stipendio di più di trecento euro, il declassamento e, come beffa finale, l’obbligo di essere assunti come “soci lavoratori”, condizione che prevede il versamento di una quota associativa: insomma, devono pagare il datore di lavoro!
Dopo una lotta iniziata mesi fa, i lavoratori hanno deciso di non chinare la testa, rifiutando queste condizioni umilianti e continuando la lotta fuori dalla portineria dell’Ospedale. Infatti dal 1° gennaio sono disoccupati. Ma anche da quei cancelli, per loro da oggi vietati, continuano a monitorare la situazione notando come i nuovi assunti, che la ditta vincitrice del bando ha inserito al loro posto, senza adeguata preparazione, si arrabattano in un susseguirsi di azioni sconclusionate. Azioni che se da un lato sono solo tragicomiche, dall’altro rischiano di diventare solo tragiche, come il caso segnalato dal primario dell’Emodinamica con lo stato di grave rischio determinatosi per il proprio servizio dal subentro di personale al servizio di portineria non formato adeguatamente e ignorante in merito alle procedure applicate dall’ospedale per l’attivazione dei servizi di reperibilità dei vari reparti e dipartimenti. Possiamo solo immaginare lo sconforto e l’imbarazzo di questi ultimi, incolpevoli attori di una guerra tra poveri, lanciati allo sbaraglio da chi mette il profitto prima di tutto. Anche loro sono vittime.
Nelle ultime ore si è avuta una timida apertura da parte dei vertici della AslTo2, che hanno ammesso che lo stipendio offerto, effettivamente, è troppo basso. I lavoratori stanno mettendo in atto tutte le manovre legali possibili, insomma la situazione è ancora fluida: auspichiamo un seppur tardivo ripensamento da parte della committenza. Forse questa esperienza ha insegnato che non tutti i servizi sono cedibili al minor prezzo e che un servizio di qualità deve avere il costo adeguato.
Nel settore degli appalti la precarietà è da sempre la condizione di lavoro e di vita quotidiana: basta infatti diventare per qualche oscuro motivo “sgraditi alla committenza” per essere cacciati senza pietà, e in ogni caso per il padronato è sufficiente aspettare il cambio appalto per spedire il lavoratore, che magari chiede solo che i suoi diritti vengano rispettati, fuori dalle scatole.
Ma non solo. Ad ogni cambio di appalto il numero degli addetti si riduce per il perverso effetto delle vincite al massimo ribasso, di fatto legalizzato, e se non si riduce il numero dei lavoratori si riduce il monte ore da impiegare in quel determinato cantiere. Basta vedere quel “pasticciaccio brutto” che il Miur, in compagnia di Consip, ha combinato con la pulizia nelle scuole, su imput della scellerata gestione della Gelmini. Tutto questo alla faccia della responsabilità politica della committenza che, quando è pubblica, deve anche esprimere il valore superiore della correttezza e della solidarietà, impedendo che nelle stanze dei suoi palazzi venga impunemente violato ogni livello minimo di rispetto del lavoro; di quegli articoli della Costituzione che loro dovrebbero rappresentare e difendere.
In questo desolante e buio panorama una fievole ma importante luce arriva dal consiglio regionale del Piemonte: infatti il 19 dicembre 2013 è stata approvata una mozione vincolante per la giunta regionale sugli appalti pubblici di propria competenza, che richiede il rispetto - per le aziende subentranti nell’affido di appalti di servizi - del mantenimento delle medesime condizioni economiche dei lavoratori maturate alla data del cambio appalto.