Poche, pochissime regole, la palla da mettere dentro la rete come unico obiettivo. Il calcio in costume fiorentino si gioca più o meno così. Matteo Renzi vorrebbe che il congresso del Pd seguisse lo stesso copione. Primarie aperte a tutti, sempre, dalla scelta del segretario comunale del piccolo centro della provincia marchigiana a quella del successore di Pierluigi Bersani in largo del Nazzareno. Abituato ai raffinati regolamenti interni della più grande organizzazione italiana di massa – la Cgil – Guglielmo Epifani si aggira pensieroso negli uffici del quartier generale democrat. Il suo compito – l’ha ripetuto fino alla nausea – è quello di traghettare il partito fino al congresso per poi rientrare nei ranghi, cioè in Parlamento, dove è stato eletto e dove presiede la commissione attività produttive di Montecitorio.
Ma il Pd è un gatto arrabbiato, e come direbbe il Trap per metterlo nel sacco ci vogliono sforzi sovrumani. Guglielmo il reggente è diventato nel giro di pochi giorni Guglielmo il temporeggiatore, quasi a voler dire che l’ex segretario generale del sindacato di Corso Italia, per quanto si sforzi, non è in grado di tenere a bada i litigiosissimi notabili del partitone tricolore. In primis Matteo Renzi, l’ambiziosissimo sindaco di Firenze che nei suoi sogni si vede a palazzo Chigi, sospinto da una moltitudine di italiani di ogni età, sesso, religione e credo politico. Il fatto che l’attuale presidente del Consiglio sia un suo collega di partito non lo fa arretrare di un passo. Certo, Enrico Letta è un amico, è giovane quasi quanto lui, è “moderato” e sicuramente non in odor di comunismo. Ma resta un ostacolo al suo assalto al palazzo. E Renzi gli ostacoli è uso frantumarli, in un modo o nell’altro, per raggiungere i suoi obiettivi.
Così è partita l’ennesima campagna del rottamatore, fatta di interminabili comparsate televisive, lunghissime interviste concesse a destra e a manca, dal Corriere della sera all’Eco di Bergamo, sapienti viaggi all’estero per incontrare i leader dell’Europa che conta, in testa Angela Merkel, a scopi dichiaratamente propagandistici. Il Paese vuole me, sembra dire Renzi, in ogni suo intervento pubblico. Ma alla guida del paese c’è un governo che lui non presiede. Un governo strano, certamente, di larghe intese, con insieme gli avversari di sempre Pd e Pdl. Però è un esecutivo che non ha alternative in questa legislatura appena nata. Visto che i Cinque stelle di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio ripetono un giorno sì e l’altro pure che il loro obiettivo è quello di far crollare le architetture della democrazia rappresentativa, in favore di una nuova era di democrazia diretta digitale tesa all’avvento di Gaia...
Giorgio Napolitano è vecchio (88 anni) e un po’ stanco. Ma è stato richiamato al Quirinale da una maggioranza bulgara di parlamentari – incapaci di mettersi d’accordo su qualsiasi altro candidato presidente della Repubblica – e soprattutto sa far di conto. Se uno più uno fa due, Pd più Pdl fanno l’unico governo possibile. Almeno di non mandare tutti a casa dopo appena sei mesi dalle elezioni e far partire una nuova, per forza di cose lacerante campagna elettorale. Così è se vi pare e anche se non vi pare, è così lo stesso.
Dunque si va avanti, anche se i primi passi della diarchia Enrico Letta Angelino Alfano alla guida del Paese sono stati costellati da provvedimenti un po’ furbeschi a sostegno del grande capitale e delle grandi opere e non certo a tutela delle fasce più deboli della popolazione. Per giunta in politica estera, la sopravvalutata titolare della Farnesina, Emma Bonino, validamente spalleggiata dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, si è impantanata nella brutta storia kazaka (il caso Ablyazov) e in quella ancor più inquietante di Seldon Lady (ex capo della Cia colpevole di un reato pesantissimo come il rapimento di Abu Omar ma uccel di bosco negli Stati Uniti, con tanti saluti alla magistratura italiana).
In definitiva, il governo Letta-Alfano non è proprio un granché. Ma ogni volta che Renzi alza la voce più del solito, re Giorgio Napolitano interviene per reprimere qualsiasi tentativo di golpe estivo. L’effetto collaterale è quello di un progressivo straniamento della base democratica (e anche un po’ di quella pidiellina), perché cane e gatto possono anche convivere ma, in genere, non si amano e passano le giornate a farsi i dispetti. Lo scenario è ideale per l’ennesimo psicodramma collettivo che, a inizio autunno, vedrà protagoniste militanti e simpatizzanti del partitone tricolore, chiamati a dire la loro in un congresso che si annuncia al calor bianco. E che rischia di essere inutile se poi alla fine i vincitori saranno incoronati da un’indistinta moltitudine di italiani a cui basterà pagare due euro per godere dell’indubbio privilegio di decidere le sorti di una forza politica che potrebbero non votare alle elezioni. Il sogno di Renzi. L’incubo di tanti altri, a partire da Pierluigi Bersani per finire con il militante ignoto nella friggitoria della festa democrat di Pizzighettone.
Anche i vescovi italiani hanno fatto sentire la loro voce critica. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Eppure sono sotto gli occhi di tutti i non-risultati del decreto che ha “liberalizzato” le aperture domenicali degli esercizi commerciali: piccoli negozi vuoti, e grandi mall con l’aria condizionata frequentati da chi va in cerca di un po’ di refrigerio, ingannando il tempo davanti alle vetrine ma senza comprare niente o quasi.
Si obietterà che è colpa della crisi, visto il crollo degli acquisti in ogni settore. L’Istituto nazionale di statistica conferma anche questa chiave di lettura. Gli ultimi dati disponibili, riferibili ai mesi primaverili, certificano che la discesa delle vendite al dettaglio in tutto il paese assomiglia sempre più a un precipizio: in aprile la contrazione è stata dello 0,1% rispetto a marzo, e del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2012. La decima flessione tendenziale consecutiva. L’altra faccia della stessa medaglia è illustrata dalla Filcams-Cgil, che dati alla mano osserva come le domeniche non aumentino i fatturati ma solo la fatica dei commessi. Mentre, per effetto collaterale, le spese crollano il lunedì, il martedì e il mercoledì, e si riducono perfino nella giornata “principe” del sabato. Il segno, evidente, che le liberalizzazioni dei giorni festivi portano a una diversa distribuzione degli acquisti e non a una crescita dei guadagni. In altre parole i pochi soldi degli italiani si spendono in sette giorni invece che in sei. Ma la somma complessiva non cambia.
Visto il contesto, sta diventando ogni giorno più popolare la battaglia civile avviata per abrogare il decreto “salva Italia” del governo pseudo tecnico di Mario Monti, nella parte che ha liberalizzato l’apertura al pubblico degli esercizi commerciali. Dopo il tentativo di ricorrere alla Consulta da parte di alcune Regioni, si è mossa anche la Confesercenti, che ha lanciato una raccolta di firme dal titolo “Liberaladomenica” per una legge di iniziativa popolare tesa a riportare fra le competenze regionali le normative sulle aperture delle attività commerciali. Una raccolta che ha avuto l’esplicita e significativa adesione della Cei, la Conferenza episcopale italiana che riunisce tutti i vescovi della penisola. Perché il settimo giorno anche qualcuno molto in alto, fin dall’alba dei tempi, si è riposato.
L’obiettivo finale è quello di garantire almeno otto giorni di chiusura annui di outlet e centri commerciali, nelle principali ricorrenze religiose e laiche. Così la Filcams Cgil chiede per l’ennesima volta, con forza, che la legge di Monti sia cancellata e si ritorni alla situazione di prima, quando le aperture domenicali e festive venivano decise in concertazione con gli enti locali. Senza naturalmente dimenticare i lavoratori, vittime due volte di questa situazione dato che, a causa della crisi, a chi è assunto vengono tagliate ore di lavoro facendolo passare dal tempo pieno al part time. Mentre non si assumono più giovani a tempo determinato, per far fronte alle vendite nei momenti che una volta erano di punta.