Una visione europea

Come arrivare alla quattro giorni di Firenze? Già nei giorni scorsi, nell’ultima settimana di agosto, è stata organizzata una discussione preliminare in teleconferenza. Mentre già da tempo, sul web, va avanti il dibattito su quelle che potranno essere le principali richieste tendenti a ri-democratizzare lo spazio europeo. Il primo appuntamento preparatorio “fisico” è invece fissato a Milano, dal pomeriggio di venerdì 12 fino a domenica 14 settembre. Sarà un seminario in Palazzo Reale (piazza Piazza Duomo 12), impostato dalla Rete italiana del Wsf e dal comitato Firenze 10+10 come un “moltiplicatore” della mobilitazione, e come momento di confronto sulle possibili metodologie dell’appuntamento fiorentino.
Con l’incontro milanese, e quello che si svolgerà il 19 ottobre a Bucarest, sarà definito un programma di massima. Non dettagliato. “Firenze 10+10 potrà dare un buon risultato – spiegano infatti i promotori - solo se riuscirà a basarsi sull’effettivo potenziale esistente delle reti, delle coalizioni, delle lotte e degli attori sociali”. Alcune idee di partenza sono comunque già state delineate: ad esempio una parte del programma potrebbe essere dedicato alle auto-convergenze organizzate da reti e coalizioni, secondo i loro piani di lavoro e la loro agenda. Ancora in embrione invece la parte del programma tesa a “concretizzare le convergenze” per un’azione comune, perché ancora non è stato affrontato il nodo delle questioni principali a cui dare priorità, oltre che la metodologia degli incontri di convergenza. Certo è che, sia per i promotori che per le prime realtà aderenti al percorso verso Firenze 10+10, c’è la necessità di andare verso un movimento popolare alternativo. Che, come nel 2002, abbia una capacità di analisi e di proposta in grado di tracciare un’agenda e alcune strategie comuni per i prossimi anni. In chiave europea, transnazionale: “La crisi e le politiche di austerità possono essere battute – puntualizzano gli organizzatori - ma siamo consapevoli che per raggiungere questo obiettivo dobbiamo rifuggire la frammentazione, e la chiusura di ciascuno nelle propria ristretta dimensione nazionale”.

Movimenti verso firenze

Movimenti sociali di nuovo a Firenze, dall’8 all’11 novembre prossimi. Dieci anni dopo il Forum sociale europeo, e sempre alla Fortezza da Basso. Ma non è un amarcord: basta leggere la riflessione di partenza che ha già avviato la discussione collettiva dei movimenti: “Le risposte politiche alla crisi che sono dettate dalla Commissione europea, dall’Ecofin e dalla Banca centrale europea peggiorano la stessa crisi e minacciano la democrazia. Di fronte alla crisi, la risposta delle élites europee è segnata da un’aggressiva centralizzazione dei poteri decisionali, senza alcun tentativo di costruire uno spazio democratico transnazionale. L’approvazione del Fiscal Compact è solo l’ultimo passo verso l’imposizione di una disciplina fiscale ancora più severa. Al tempo stesso l’attacco ai diritti del lavoro e allo stato sociale, e la privatizzazione dei servizi fondamentali, sembra richiedere in maniera crescente l’umiliazione della democrazia, persino nelle sue forme rappresentative. Lo stesso processo elettorale avviene sotto il ricatto permanente della crisi del debito sovrano e delle richieste dei mercati finanziari”. Insomma quanto di più attuale possa esserci, così come attuale – e urgente – è la risposta che deve essere data a questa nuova, pesantissima lotta di classe. Fatta dal capitale, contro il lavoro.
Per questo, fin dal primo appuntamento che si è svolto nel maggio scorso a Terra Futura, i movimenti fiorentini stanno chiamando a raccolta organizzazioni, reti e personalità di tutto il vecchio continente, con l’obiettivo di ricostruire legami, socializzare le riflessioni, progettare azioni tese alla costruzione di un’Europa sociale e dei beni comuni. E per riprendersi la democrazia confiscata dai cosiddetti “mercati”. “Nell’arco dei quattro giorni di Firenze 10+10 – spiega il comitato organizzatore – intendiamo guardare al presente e al futuro, e a come unire le forze perché il momento è grave e occorre agire insieme. Progettando strategie e campagne per un’Europa oltre il dominio della finanza e dei mercati”. L’impegno è grande ma la sfida va accettata. Perché c’è un gran bisogno di ricostruire uno spazio di discussione e azione comune, mentre si manifestano i tanti effetti della crisi ma si attivano numerose forme di conflitto sociale e di proposta alternativa, anche con dimensioni di massa. Basti pensare al referendum vincente del 2011 sull’acqua, alla sempre più ramificata opposizione alle grandi opere inutili, al diffuso contrasto alla privatizzazione dei servizi pubblici sul sito www.firenze1010.eu ci sono tutti i riferimenti per entrare in contatto con il gruppo di coordinamento, per conoscere luoghi e tempi degli incontri preparatori e per contribuire ai cinque gruppi di lavoro: programma-contenuti; logistica; partecipazione e accoglienza; comunicazione; risorse. C’è inoltre l’indirizzo This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. per l’informazione e tutte le comunicazioni.

La legge sul riposo festivo

L’azione per ridurre orari di lavoro inumani (12 e perfino 14 ore giornaliere, sette giorni su sette) è uno degli aspetti su cui il sindacato fin dalle origini ha cercato di ottenere delle conquiste. Questo vale anche per i lavoratori del commercio che hanno sempre posto una particolare attenzione alla conquista del riposo festivo.
Già nel 1894 venne pubblicato il giornale “Il riposo festivo, organo dei commessi per il riposo domenicale” per sensibilizzare sia i lavoratori sia l’opinione pubblica sul tema specifico e sulle condizioni di vita dei lavoratori del settore.
Il giornale uscì solo per 4 numeri, ma il tema venne ripreso nel 1898 da “Il commesso di commercio, organo della classe dei commessi…” che pose tra i temi dibattuti dalla categoria la questione dell’orario “al cui interno assume particolare rilievo la questione del riposo settimanale”.
Il giornale, constatando che gli operai del settore industriale avevano già conquistato, attraverso l’azione collettiva, di non lavorare la domenica, aggiunse: “E’ con invidia che noi vediamo chiuse l’officine […] e li invidiamo perché tristemente pensiamo a quel tempo ancora lontano nel quale ci sarà dato uguale parità di trattamento”.
Nel 1897 sull’argomento si svolse a Bologna un “comizio” (cioè una iniziativa pubblica) con l’intervento di 54 Associazioni di Mutuo soccorso di impiegati e commessi di commercio.
A Roma nel 1898 si tentò una “trattativa” per la chiusura domenicale completa nella filiale della Ditta F.lli Bocconi (grandi magazzini dell’epoca). Il tentativo fu controproducente perché, a fronte dell’abolizione dell’apertura festiva 9-12, vennero tolti i 10 giorni di licenza annuale di cui godevano i dipendenti.
Questa debolezza “contrattuale”, verso il padronato, fece spostare l’iniziativa dei lavoratori sul versante legislativo; ci si pose l’obiettivo di creare le condizioni per presentare e far approvare dal Parlamento una legge sul riposo settimanale.
Per sostenere questo progetto la neonata Federazione italiana tra commessi e impiegati di commercio, costituitasi nel 1899, promosse una nutrita serie di iniziative che culminano in “comizi” concomitanti in tutta Italia. L’iniziativa fu indetta per il 25 maggio 1902 contemporaneamente in  30 città (da Udine a Palermo) per sostenere la proposta di legge che la Federazione aveva commissionato a Gasparotto [esponente politico repubblicano, autore, tra il 1902 e il 1905 di due brevi monografie (“Per un giorno di riposo. Una nuova organizzazione. La legislazione del lavoro in Italia. Il riposo settimanale”, Milano 1902 e “Contenuto e limiti di una legge sul riposo settimanale”. Postilla alla monografia “Per un giorno di riposo”, in Critica sociale, 1° nov. 1905, pp. 330-333; 16 novembre - 1° dic. 1905, pp. 350-357)] e ad Angelo Cabrini [il socialista milanese che nel 1893 aveva presieduto il Congresso nel corso del quale le prime 13 Camere del lavoro d’Italia si erano unite in una Federazione].
L’iniziativa, vista la buona partecipazione, venne ripetuta il 9 novembre successivo.
Queste manifestazioni influirono positivamente sull’esame della proposta di legge da parte della Commissione parlamentare che ne approvò il testo (nell’ottobre 1903), ma la Camera dei Deputati la bocciò con votazione a scrutinio segreto (nel marzo 1904). Occorse quindi rimboccarsi le maniche e ricominciare l’opera. Ci vorranno altri tre anni di impegni per ottenere la legge. La legge sul riposo festivo entrò infatti in vigore nel 1908.

Il riposo festivo: una conquista rimessa in discussione dopo oltre un secolo

Nel 1904 la Camera dei Deputati bocciò il disegno di legge per l’introduzione del riposo festivo. Questo non aveva scoraggiato il movimento dei lavoratori. Nel corso dello stesso anno venne convocato un Congresso nazionale pro riposo festivo e furono poste in cantiere numerose altre iniziative: venne creato un Comitato centrale nazionale e istituiti Comitati regionali per sostenere, in modo continuativo, la richiesta della legge sul riposo festivo. L’“Unione” dedica, quasi su ogni numero, articoli sull’importanza della richiesta e pubblicò un numero unico (novembre-dicembre 1905), dedicato al riposo festivo, diffuso in tutta Italia in migliaia di copie.
L’iter parlamentare della legge fu accompagnato da numerose iniziative, cadenzate con i lavori parlamentari. Così, sotto la spinta di un’opinione pubblica più attenta, la legge sul riposo festivo venne approvata dalla Camera prima e dal Senato poi (luglio 1907) ed entrò in vigore nel febbraio 1908.
La legge approvata, di proposta ministeriale, rappresentò un arretramento rispetto alla proposta Cabrini (prevedette un riposo di 24 e non di 36 ore consecutive e non impose la chiusura degli esercizi commerciali, ma soltanto il riposo obbligatorio per i dipendenti). Questo esentò tutte le attività di tipo familiare e potè rappresentare un escamotage per aggirare la legge. Tali limiti fecero dire al redattore de “L’Unione” che la legge rappresentò solo un “acconto” della legislazione sociale che venne richiesta.
Con l’approvazione della normativa non terminò la mobilitazione della categoria, bensì iniziarono forme di pressione, sugli esercizi commerciali, per far “applicare anticipatamente” la legge sulla chiusura domenicale (anche con picchetti e con  squadre organizzate di lavoratori che girarono per le città). A Milano, tra l’altro, si tenne una manifestazione, con corteo e comizio finale, alla quale parteciparono circa 12.000 persone. Furono necessarie ancora molta costanza e determinazione per evitare che i commercianti, con accorgimenti formali, non aggirassero e svuotassero la legge; man mano, la chiusura venne fatta applicare sia nelle città che nei piccoli centri fino a diventare una norma accettata e un simbolo di civiltà.
Norma di civiltà che dopo 105 anni è stata rimessa in discussione dall’odierna restaurazione neoliberista e conservatrice sostenuta da leggi “sciagurate” che danno alle aziende la gestione unilaterale delle aperture domenicali e festive. L’aspetto assurdo è la sottrazione di questi aspetti  alla contrattazione sindacale nell’ottica di relegare il lavoratore a mero “passivo strumento della produzione economica” con diritti sempre minori. Certo la situazione attuale è difficile, la politica del governo e delle forze politiche che lo sorreggono non consentono molte illusioni su un veloce superamento del problema, ma la mobilitazione dei lavoratori, anche attingendo a forme di lotta  innovative o già collaudate, avranno ragione di queste politiche regressive, poste in essere per  ampliare l’arbitrio del padronato.
C.G.

Per approfondimenti vedi:
“L’origine dell’attività sindacale nel settore
dei servizi (1880-1925)”,
di A. Famiglietti. Roma, Ediesse, 2005.

Associati in partecipazione e lavoro a chiamata

Associazione in partecipazione: secondo un copione monotono, la scomparsa di questa forma di lavoro ipotizzata dalla ministra Fornero non c’è stata e non c’è stata neanche la limitazione dell’associazione tra familiari entro il 1° grado o coniugi, come aveva prospettato ai sindacati.
L’art. 2549 del c.c. si arricchisce invece di un nuovo comma: “il numero di associati in una nuova attività non può essere superiore a tre” salvo che “gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il 3° grado o di affinità entro il 2° grado”. A vantaggio delle lavoratrici e dei lavoratori c’è che la violazione di tale comma comporta che il rapporto di lavoro si considera subordinato a tempo indeterminato, così come, salva prova contraria, i rapporti di associazione senza effettiva partecipazione agli utili ovvero senza consegna del rendiconto. Va da sé l’importanza della segnalazione delle finte o quanto meno dubbie associazioni.
Lavoro intermittente: con la l.92 del 18 luglio il governo è intervenuto sul lavoro a chiamata. Con tale contratto il lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro che lo utilizza quando ne ha effettivamente bisogno, senza obbligo retributivo in assenza di prestazione effettiva, salva l’eventuale indennità di disponibilità da corrispondere a consuntivo a fine mese.
Le attività a carattere discontinuo che permettono il ricorso al job-on-call restano quelle elencate nel Regio Decreto n. 2657/1923, in mancanza di attività individuate dai CCNL. Sono 46 le occupazioni elencate; dai custodi/portinai/uscieri/fattorini ai camerieri, personale di treno e di manovra, commessi di negozio nelle città con meno di 50mila abitanti, personale degli essiccatoi, personale adibito alla distribuzione dell’acqua potabile, barbieri, parrucchieri nelle città con meno di 100mila abitanti, personale addetto alla custodia delle cavie per esperimenti.
Cambiano l’ambito di applicazione e i requisiti di carattere soggettivo. Dal 18 luglio non si può più ricorrere al lavoro a chiamata per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, ma con la circolare n.18 il Ministero chiarisce che se è previsto dal CCNL è possibile. E’ ammessa la stipula di un contratto di lavoro intermittente “con soggetti con più di 55 anni (prima erano 45 anni) o con meno di 24 (prima 25 anni), fermo restando in tal caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il 25.mo anno”. Il giovane deve cessare il lavoro intermittente il giorno prima del suo 25.mo compleanno.
Resta l’obbligo della forma scritta con l’indicazione della durata e del tipo di stipulazione, dell’indicazione del vincolo o meno della risposta alla chiamata, della consegna della busta paga.
Viene introdotto l’obbligo di comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro (DTL) competente della durata della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni mediante sms, fax o e-mail.  Dal 1° ottobre attraverso il canale online disponibile anche da strumenti mobili. La violazione comporta sanzioni da 400 a 2400 euro per ogni lavoratore per cui è stata omessa la denuncia. Il ministero è dovuto intervenire più volte con note e circolari per sbrogliare la matassa dei canali di comunicazione. La cosa chiara è che i giorni lavorati devono coincidere con quelli preventivamente comunicati: la mancanza di eventuali modifiche, comporterà l’erogazione della retribuzione e dei relativi oneri contributivi, oltre alla sanzione per la mancata comunicazione preventiva.
I contratti già in essere prima del 18 luglio incompatibili con le nuove norme, cesseranno di produrre effetti dal 17 luglio 2013.
In caso di licenziamento? Dal 1° gennaio 2013  per l’Aspi sono richiesti almeno 2 anni di anzianità assicurativa e 52 settimane di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione; per la mini-Aspi almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi 12 mesi. Ma approfondiremo in seguito come cambiano gli ammortizzatori sociali.