C'è bisogno di sinistra

Il mondo del lavoro è privo di una rappresentanza politica efficace. E’ un dato di fatto.
L’autonomia del sindacato dai partiti non significa indifferenza per la politica.
La lotta in corso nel Pd tra le forze che fanno riferimento al socialismo europeo e quelle centriste ci riguarda. Anche se dobbiamo prendere atto che tutto il Pd si muove all’interno della logica delle compatibilità e non si pone più il problema di un’alternativa economica e sociale di sistema alla società capitalistica e di contrapposizione al liberismo economico.
Le forze della sinistra d’alternativa sono divise, rissose tra loro e incapaci di porre le loro idee al centro del dibattito politico e spesso si rifugiano in un minoritarismo inconcludente.
La rabbia, l’indignazione, lo sconforto di fronte alla crisi del paese, che non è solo crisi economica, ma anche crisi sociale, politica, in mancanza di un’alternativa credibile, guardano a movimenti di ribellione confusa o comunque estranei alla cultura e alla storia del movimento operaio  o all’astensionismo. Anche tra i lavoratori. Anche tra settori combattivi del mondo del lavoro.
Il movimento sindacale ha bisogno di interlocuzioni forti nella politica, per riaffermare la centralità del lavoro e dei diritti contro l’egemonia neoliberista, per contrastare una politica che affronta la crisi contro il lavoro e i diritti.
Per questo il movimento sindacale ha bisogno di una sinistra che si ponga la questione del governo del paese, che chieda il mandato a governare il paese. Per questo oggi bisogna opporsi al governo Monti e alla sua politica. Per indicare un’alternativa.
La Cgil deve rivendicare un confronto aperto con le forze politiche di centrosinistra e di sinistra, per discutere del merito. Così affermerà la sua autonomia e porrà il lavoro e i diritti al centro del dibattito politico. Così contribuiremo alla rifondazione della sinistra di classe.

Pericle Frosetti


Quanti Casini nel Pdl: il centro vuole andare all'incasso

Vince il banco. In politica il banco è il centro. Pierferdinando Casini sceglie Pierluigi Bersani, i moderati abbracciano i progressisti. L’alternativa non c’era. Ricostruire sulle macerie del Pdl sarebbe stato ancora più complicato che far digerire comunisti in una ormai lontana gioventù, come Veltroni e D’Alema, agli eredi di Andreotti e Forlani. La mossa di Casini era prevedibile. Alle esplicite offerte politiche del Pd, l’indiscusso leader centrista aveva già risposto liberandosi all’indomani delle amministrative di alcuni pesi morti. La destra finiana, ma non Gianfranco Fini (che resta uomo per tutte le stagioni). E l’Api rutelliana, formazione di ex democrat (e fra gli ex, si sa, è tutto più complicato), che negli ultimi tempi ha peraltro collezionato brutte figure.
Il centro politico, al di là dei non eccellenti risultati elettorali dell’Udc, resta Casini. Conteso da quanto si muove alla sua destra e alla sua sinistra, è il Montiano doc per eccellenza. Mario Monti attua politiche vicinissime ai democristiani ex inquilini della Casa delle libertà berlusconiana. L’ostinazione di  Silvio Berlusconi a restare nel campo della politica è un altro fattore, forse ancor più decisivo, per spingere Casini fra le braccia del Pd. L’ultima volta con il Cavaliere risale ormai al 2006, un’era politica fa, anche se il giovane Matteo Renzi era già presidente provinciale di Firenze. Parlando del sindaco di Firenze, Casini è stato esplicito: è più a destra di me. Ma questa è un’altra storia, questi sono problemi del Pd.
Vince il banco. In politica il banco è il centro. Lo sa bene Gianni Alemanno. Dopo lunghi anni all’ombra del presidentissimo Fini, l’insperato successo alle elezioni comunali nel 2009 ha accresciuto l’autostima dell’antico alfiere della cosiddetta destra sociale. Fino al punto di fargli sognare la  leadership del Pdl. Ma non appena gli uccellini del Campidoglio sono volati sugli altri davanzali dei palazzi della politica, trasmettendo il pensiero stupendo del primo cittadino della Capitale, è subito arrivata la reazione della componente centrista del partito (ex?) berlusconiano. Beppe Pisanu, democristiano di lunghissimo corso, convertito alla dottrina del Cavaliere ma sempre su posizioni autonomiste, ha proposto di abbattere le frontiere con il Terzo polo e riconquistare alla causa della destra di governo sia Casini che lo stesso Fini. Fantapolitica? Forse. Al pari del partito di Montezemolo. Ma il dato politico c’è: la crisi del Pdl è conclamata e forse irreversibile. Casini l’ha capito e ne ha tratto le conseguenze. Se il Pd sembra in grado di sopportare l’alleanza con l’Udc, come del resto era nelle cose fin dalla nascita del partito democratico, gli effetti collaterali dell’“alleanza progressisti-moderati” sono destinati a ripercuotersi sulle piccole forze politiche alla sinistra del Pd. Nessuna esclusa.

Frida Nacinovich

Se gli utenti si autorganizzano

Aumenta la domanda, diminuisce l’offerta, ristagnano e addirittura si riducono i finanziamenti. Di fronte a questo paradosso tutto italiano, i pendolari ferroviari si sono autorganizzati per denunciare lo stato delle cose e farsi sentire. Dai 650mila lombardi che ogni giorno prendono il treno ai 540mila laziali (e abruzzesi), solo per ricordare le due regioni con il maggior numero di cittadini-utenti, sono nati comitati su comitati, in ogni angolo della penisola.

Solo per fare qualche esempio ci sono i bergamaschi (www.quellideltreno.com e quelli della tratta Milano-Cremona-Mantova (www.inorario.com), i pendolari viterbesi (www.mosp.it) e quelli reatini, i piemontesi della Novara-Milano e il coordinamento dei pendolari liguri, gli agguerriti piacentini (digilander.libero.it/pendolaripiacenza) e i toscani che fanno capo alla Federconsumatori. Sempre pronti a denunciare assurdità come l’avvenuta riduzione degli Intercity sulle tratte che collegano le provincie alle metropoli, e più in generale per dire “no” ai tagli. Le proteste sono segnalate ogni giorno dai media locali. E assumono rilievo nazionale quando, come nel dicembre scorso a Genova, Torino, Milano, Roma, Salerno, Reggio Calabria, Venezia-Mestre, Piacenza e Pistoia, vengono organizzati blitz di protesta in contemporanea. Per il potenziamento del trasporto regionale e perché il servizio universale (Intercity ed Espressi), che vede anno dopo anno ridurre l’offerta nell’orario di Trenitalia, torni all’ordine del giorno. “Non si provi a rispondere che è una questione di risorse – ammonisce Edoardo Zanchini vicepresidente di Legambiente - perché ogni anno si spendono diversi miliardi di euro solo per soddisfare le richieste delle lobby delle grandi opere e di quelle dell’autotrasporto. Mentre investire sui treni pendolari è la migliore risposta che si può dare agli italiani in un momento di crisi”. Ma fra gli amministratori e i politici, si uniscono alle denunce dei comitati dei pendolari solo quelli che vivono sulla loro pelle la difficoltà di raggiungere, in orario e con sufficiente comodità, i luoghi di lavoro.

Riccardo Chiari

Filcams, 50 anni a difesa dei lavoratori "di frontiera"

Oltre mezzo secolo fa, precisamente dal 18 al 21 marzo 1960, si tenne a Roma il Congresso che diede origine alla nuova Federazione dei lavoratori del commercio, alberghi mensa e servizi denominata Filcams.
Le Federazioni che con la loro unificazione diedero vita alla Filcams furono la Filam (Federazione italiana lavoratori alberghi e mense) e la Filcea (Federazione italiana lavoratori del commercio e aggregati), frutto a loro volta di precedenti accorpamenti tra le categorie di settore costituitesi dopo il crollo del regime fascista.
Organizzativamente la categoria era strutturata su tre livelli: nazionale, provinciale, e di base (sezioni e leghe).
Questo fu il primo nucleo della Filcams che si rafforzò successivamente per l’unificazione con la Fiarvep che organizzava i viaggiatori e i piazzisti e che solo nel 1966 confluiranno, in modo parziale, nella Filcams ad eccezione dei commessi viaggiatori che si occupavano di prodotti alimentari che furono inquadrati nella Filziat-Cgil (la Federazione degli alimentaristi dell’epoca).
Successivamente confluiranno nella Filcams i lavoratori organizzati dalla Filai (Federazione italiana ausiliari dell’impiego) che organizzava i lavoratori della vigilanza, i portieri, i custodi negli enti pubblici, ecc. che entreranno nella Filcams solo nel 1974.
La struttura della Filcams prevedeva la nascita di  13 sindacati nazionali di settore con proprie strutture provinciali ed erano affiliati alla Filcams.
Gli iscritti della categoria nel 1960 risultavano  essere 91.207 lavoratori per il settore commercio e di parte dei 59340 dei servizi, ancora in larga parte tesserati alla Fiarvep e alla Filai. Complessivamente alla sua costituzione la Filcams che è oggi la seconda Federazione di categoria, per numero di iscritti, tra quelle produttive, risultava tutto sommato una categoria di dimensioni medio-piccole. I cambiamenti socio economici e la progressiva terziarizzazione dell’economia italiana intervenuti dal 1960 ad oggi hanno portato la categoria ai quasi 400.000 iscritti del 2011 (399.819). Sicuramente il triplicamento degli iscritti non è dovuto solamente all’espansione del comparto produttivo ma anche al radicamento e alla rappresentatività che la Filcams ha saputo conquistarsi in questo mezzo secolo di attività a difesa e tutela dei lavoratori del variegato mondo del commercio e dei servizi.

Calogero Governali
Centro documentazione e Archivio storico Cgil Toscana


Per approfondire l’argomento:
“La nascita della Filcams-Cgil: il sindacalismo dei servizi nel secondo dopoguerra (1944-1960)” di Antonio Famiglietti (Roma, Ediesse, 2008);
“La regolamentazione contrattuale dei lavoratori del commercio (1946-1966)” a cura di Alieto (Roma, Editrice sindacale italiana);
“Quarant’anni di tesseramento Cgil, 1949-1988” di Patrizio Di Nicola ; prefazione di Enzo Ceremigna (Roma, Ediesse, 1989);
“I sindacati della CGIL 1944-1968, un dizionario” di Myriam Bergamaschi (Milano, Guerini e associati, 2007);
“FILCAMS: bollettino bimestrale di orientamento, documentazione e informazione …” (1961)

Pendolari nel paese anormale

Entro questo mese di luglio, il governo Monti dovrà dare una risposta alle Regioni in merito ai mancati finanziamenti, che erano promessi, per il trasporto ferroviario. Negli enti locali c’è grande preoccupazione, perché non sta arrivando alcuna garanzia sui fondi per il trasporto pubblico locale (tpl). Per arrivare alla cifra di 1,6 miliardi di euro che l’esecutivo aveva assicurato per il 2012 al fondo nazionale per il trasporto ferroviario, mancano all’appello 400 milioni. Di questi, 314 milioni avrebbero dovuto già essere versati, mentre per gli altri 86 milioni di euro lo sblocco si lega ad un effettivo miglioramento del servizio, con maggiore efficienza e minori sprechi. Partendo da questi dati, si capisce perché Mauro Moretti, ad delle Ferrovie, abbia minacciato: “Senza certezze sui trasferimenti dallo Stato alle Regioni, nel 2013 non faremo il servizio regionale”. In aggiunta, Moretti ha osservato che dal servizio regionale i ricavi per passeggero/chilometro in Italia sono di 10,8 centesimi, contro i 20 centesimi in Germania, 22 in Francia, 37 in media in Inghilterra. Dunque insieme ai contributi pubblici andrebbero aumentate anche le tariffe per gli utenti. Per i pendolari.
Quello che Moretti non ha detto lo dice Bankitalia, per bocca del suo governatore Ignazio Visco: “Qui da noi i costi per chilometro dell’alta velocità sono tre volte più alti di quelli in Francia e Spagna”. Mentre la Cgil, con Fabrizio Solari, guarda a un altro aspetto del problema: “La concorrenza fra Ntv e Trenitalia fa crescere l’offerta nell’alta velocità mentre la domanda, a causa della crisi, ristagna o tende a calare. Al contrario nel trasporto locale la crisi fa lievitare la domanda mentre si diminuisce l’offerta. Per non parlare dei livelli qualitativi, spesso lontani dalla decenza”. Frase sottoscritta da tutti i pendolari italiani, che negli ultimi cinque anni sono passati da due a quasi tre milioni. Mentre i finanziamenti pubblici statali, di anno in anno, sono rimasti uguali o sono addirittura calati, anche di centinaia di milioni. E invece i biglietti sono aumentati dal 10 al 20% a seconda delle Regioni. Che solo in pochissimi casi hanno investito per acquistare nuovi treni.
La vox populi è ben rappresentata da Federconsumatori e Adusbef: “Il servizio regionale rappresenta il 90% del trasporto ferroviario. Ma una società pubblica che dovrebbe garantire un servizio universale, a furia di correre dietro ai treni veloci lascia per strada i pendolari. Quelli veri”. Da sottolineare infine, scorrendo i dati del rapporto ‘Pendolaria’ di Legambiente, che negli ultimi dieci anni sia gli investimenti statali, sia quelli regionali, hanno privilegiato le strade a danno delle ferrovie. Il traffico su gomma è stato premiato con il 72,1% di fondi stanziati, mentre alle reti metropolitane è stato destinato il 15,4% e alle ferrovie solo il 12,5% degli stanziamenti. Per essere ancora più chiari: dal 2002 al 2011 le infrastrutture stradali sfiorano i 60 miliardi di euro, contro i 12,7 delle metropolitane e i 10 miliardi delle ferrovie. Quando si dice la volontà politica.

Riccardo Chiari