“L’Italia e l’Europa: la sfida del salario minimo” - La relazione di Nicola Quondamatteo

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione di Nicola Quondamatteo
(Assegnista di Ricerca presso l’Università di Padova)

L’Italia e l’Europa: la sfida del salario minimo

 

Alla crisi del 2008 e alla successiva crisi dei debiti sovrani che ha investito in particolare i paesi fragili e periferici dell’Unione Europea e dell’Eurozona, ha fatto seguito – come noto – l’austerity. Sul terreno delle politiche salariali, le misure di policy richieste dalle istituzioni comunitarie agli Stati in difficoltà sono state di segno deflazionistico, nel quadro di una spinta verso la liberalizzazione dei mercati del lavoro. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo menzionare in proposito la famosa lettera inviata nel 2011 da Trichet e Draghi all’allora governo italiano di centro-destra – in affanno e in crisi di legittimità, travolto dagli scandali ma indebolito anche da un articolato ciclo di lotte sociali e democratiche (studenti, movimento delle donne, beni comuni ecc.) che si erano sviluppate in quegli anni. La lettera di Trichet e Draghi parlava un linguaggio chiaro: decentralizzare la contrattazione collettiva (anche per quanto riguarda la definizione dei minimi salariali) e liberalizzare in entrata e in uscita il mercato del lavoro. Il governo Berlusconi rispose con l’art. 8, l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti con il primo indebolimento dell’articolo 18 (l’opera sarà poi completata da Renzi negli anni successivi).

In Irlanda, nel 2011, il salario minimo venne tagliato dell’11,5%; il nuovo governo reintrodusse poi l’importo precedente, ma la Troika accettò solo a patto che i datori di lavoro venissero compensati per quanto riguarda la contribuzione sociale. In Portogallo, la Troika assunse un ruolo ancora più dirimente nella determinazione delle politiche salariali: gli incrementi della retribuzione minima potevano avvenire solo se giustificati da condizioni economiche e la Troika stessa si ritagliò un potere di veto. Si arrivò dunque a un congelamento di fatto, mentre veniva bloccata ogni ipotesi di estensione della contrattazione collettiva. Nel febbraio 2012, la Grecia tagliò del 22% il salario minimo, nonostante l’opposizione delle parti sociali: una sforbiciata che violava dunque l’autonomia contrattuale, visto che il pavimento stipendiale era stato pattuito con l’accordo di sindacati e imprese. In Spagna veniva sospesa, per la prima volta dagli anni ’60, l’indicizzazione annuale, mentre la Bce chiedeva precarizzazione e mini-jobs in cambio dell’acquisto dei bond di Madrid. Anche in Romania Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale e Commissione Europea spinsero per la decentralizzazione della contrattazione collettiva, ma anche per norme più restrittive per il riconoscimento del sindacato nelle aziende. La Confederazione Europea dei Sindacati criticò complessivamente questo impianto, regressivo per la giustizia sociale ma contraddittorio anche negli esiti di politica economica. La depressione della domanda aggregata aggravava la crisi, mentre sulla competitività emergeva un cortocircuito. La ricerca di questa via bassa alla competitività poteva “funzionare” solo se applicata in un determinato paese. Ma una volta generalizzatasi restava soltanto una generale corsa al ribasso.

Rispetto all’insieme di queste misure regressive, la direttiva europea sui salari minimi adeguati sembra rispondere ad altri criteri, più orientati alla giustizia sociale. Si tratta di un cambiamento di paradigma, con la priorità che passa dalla liberalizzazione e la decentralizzazione alla protezione sociale – come si chiede la studiosa Anke Hassel? Probabilmente un giudizio cauto e prudente è necessario, specie se collochiamo la nostra riflessione in un quadro più ampio che comprende il nuovo patto di stabilità ugualmente orientato al rigore (dopo la congiuntura pandemica) e le risposte altrettanto conservatrici della Bce di Christine Lagarde alla crisi inflazionistica. Ma non c’è comunque dubbio che la direttiva sui salari minimi abbia un segno progressivo, di “de-mercificazione” del lavoro per usare le parole di Karl Polanyi. In ciò si distingue positivamente, ad esempio, dalla direttiva sul lavoro in distacco – segnata da un impianto liberale e di mercato. La direttiva sul lavoro di piattaforma, nel momento in cui scriviamo, sembra destinata invece ad un esito intermedio: frenata l’ambizione più progressiva incarnata dal Parlamento Europeo e dal governo spagnolo che spingevano per una più robusta presunzione di subordinazione, arginato il disegno più restauratore e organicamente neoliberale della Francia di Macron.

La direttiva sui salari minimi non prevede un obbligo per gli Stati membri di dotarsi di un salario minimo se si raggiunge una copertura della contrattazione collettiva dell’80%. Si dà, meritoriamente, priorità alla contrattazione settoriale – in questo segnando una positiva discontinuità con la stagione precedente. Gli obiettivi da raggiungere sono due: la retribuzione minima deve essere pari al 60% del salario mediano nazionale e al 50% del salario medio. Il riferimento di questi target affonda le radici nella ricerca scientifica sulla povertà: il 60% del reddito mediano rappresenta infatti la soglia minima necessaria per evitare il rischio povertà (il 50% del reddito mediano è invece la soglia della povertà assoluta). Un altro criterio possibile da tenere a mente è quello dell’Ocse, secondo il quale la soglia per definire il lavoro povero è quella dei 2/3 del reddito mediano. Secondo i dati del 2020, solamente Francia e Portogallo rispettavano i target della direttiva anche se il risultato portoghese è viziato dalla presenza di una struttura salariale complessiva molto debole (per cui rispettare i criteri è relativamente più facile ma non perciò indicativo di una situazione virtuosa). La Spagna sta facendo significativi passi avanti per centrare il target, il cui raggiungimento è uno degli obiettivi programmatici di legislatura definiti dall’accordo di governo tra il partito socialista (Psoe) e la sinistra radicale (Sumar), la quale esprime la Ministra del Lavoro Yolanda Díaz – artefice di provvedimenti progressivi in materia lavoristica (limitazione della precarietà, riconoscimento dello status di salariati per i riders delle piattaforme ecc.), nonché di aumenti significativi del salario minimo. L’ultimo incremento, da 1080 a 1134€ mensili lordi e per quattordici mensilità, è avvenuto all’inizio di quest’anno. È stato pattuito con i soli sindacati, vista l’indisponibilità e la contrarietà dei datori di lavoro. L’aumento è stato del 5%, superiore di un punto e mezzo al tasso di inflazione. Resta però ancora della strada da fare per centrare l’obiettivo europeo del 60% del salario mediano, che secondo i calcoli del sindacato UGT in Spagna corrisponderebbe a circa 1200€ mensili.

Ad ogni modo, nell’Unione Europea sono cinque gli Stati membri senza un salario minimo definito per legge. Oltre all’Italia, ci sono Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria. In Svezia e Danimarca i sindacati si oppongono alla regolazione per legge delle retribuzioni minime. Sono contrari anche all’estensione amministrativa della contrattazione collettiva. La dualizzazione del mercato del lavoro è un fenomeno in crescita anche in Svezia e Danimarca come sottolineato dallo studioso Jens Arnholtz. Le organizzazioni dei lavoratori preferiscono però contare sulla propria forza e non sulla regolazione statale. Un esempio è rappresentato dalle clausole pro-labour che il movimento operaio danese è riuscito ad ottenere in diverse aziende per rappresentare il lavoro in distacco. Un approccio efficace, che però richiede notevoli risorse organizzative. Diverso è il caso della Finlandia o anche della Norvegia la quale, pur non essendo in UE, fa parte di Schengen e del mercato comune europeo. Anche qui i sindacati sono contrari al salario minimo, ma non all’estensione legale dei contratti collettivi. Quest’ultima si è affermata di fronte a tematiche quali il lavoro migrante e distaccato, che hanno comportato una politicizzazione delle relazioni industriali. In Norvegia l’estensione della contrattazione collettiva si applica in settori specifici quali la cantieristica navale, mentre in Finlandia è più ampiamente utilizzata anche in edilizia e nel campo metalmeccanico. Secondo Nathan Lillie, pur non rappresentando una panacea per tutti i mali, l’estensione legale della contrattazione ha prodotto risultati apprezzabili sia in Finlandia che in Norvegia, determinando una situazione migliore rispetto agli altri due paesi scandinavi. Lo stesso Nathan Lillie, in un contributo per la rivista dei sindacati europei, ha invitato il movimento operaio nordico a riflettere sullo snodo cruciale della direttiva comunitaria sul salario minimo. Lo studioso invita a non rinchiudersi in un’elaborazione confinata allo Stato nazione, guardando piuttosto a come un generale miglioramento delle politiche salariali europee (anche tramite intervento legislativo) può essere visto come uno strumento per salvaguardare, e non per affossare, il modello nordico – che si trova comunque a fare i conti col distacco transnazionale e possibili fenomeni di dumping. In Austria, infine, non è presente un salario minimo legale ma esiste un pavimento salariale contrattato da sindacati e datori di lavoro, a cui i vari settori merceologici – con differenti timelines – sono tenuti ad adeguarsi. Questo strumento esiste dal 2007 ed aiuta a combattere l’incidenza del lavoro povero e dei bassi salari.

Prima di focalizzarci sul caso italiano, passiamo brevemente ad analizzare la situazione di due paesi che – in periodi diversi – hanno introdotto il salario minimo per legge: la Germania e il Regno Unito (quest’ultimo uscito dall’Unione Europea in seguito alla Brexit, pertanto non più soggetto alle direttive comunitarie). In Germania l’autonomia della contrattazione è stata a lungo frutto di un retaggio storico molto forte. Le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi decenni. Le trasformazioni del lavoro (femminilizzazione, terziarizzazione ecc.), accompagnate dall’unificazione con la Germania orientale, hanno lasciato molte aree non presidiate dalla contrattazione. Nel movimento sindacale è progressivamente maturato un orientamento diverso. Il sindacato dei servizi, Ver.di, è stato il primo ad aprire al salario minimo e ciò è avvenuto perché esso operava ed opera in contesti ad alta presenza di lavoro migrante e distaccato. Anche Ig Metall ha cambiato posizione: dallo scetticismo tradizionale a un importante supporto. Resta contrario il sindacato dei chimici. Il salario minimo è stato ad ogni modo introdotto nel 2015: era la contropartita richiesta dal partito socialdemocratico (Spd) per dare il proprio sostegno al governo di grande coalizione guidato da Angela Merkel. Il salario minimo è stato introdotto ad un livello di 8,5€, riconoscendo ai sindacati un ruolo nella definizione degli aumenti. È stato poi aumentato a 12€, a seguito di una iniziativa della Spd che ne aveva fatto il cavallo di battaglia per l’ultima campagna elettorale nazionale. È stato poi aumento a 12,41€ a partire dal 1° gennaio 2024. Complessivamente, il ruolo della Spd è stato importante. Dopo aver flessibilizzato il mercato del lavoro a inizio secolo, è probabilmente maturata la consapevolezza che il vecchio patto sociale (moderazione salariale e modello di crescita export-led) vedeva restringere la sua base, anche elettorale, lasciando molte quote di lavoro fuori dall’accesso ad una piena cittadinanza sociale. Un ripensamento non complessivo, alla luce ad esempio di politiche fiscali che rimangono conservatrici e restrittive, ma che ci parla di quanto il lavoro povero sia uno snodo centrale nella politica contemporanea.

Nel Regno Unito il salario minimo è stato introdotto, a livelli bassi, da Tony Blair a fine anni Novanta. Il movimento operaio era tradizionalmente scettico, ma finì per convincersi dopo le sconfitte subite ad opera di Margaret Thatcher. Il salario minimo venne introdotto in maniera anche compensatoria rispetto agli arretramenti subiti su contrattazione, sciopero, rappresentanza. Il salario minimo è stato recentemente trasformato in “living wage” dai governi conservatori pur se questo è avvenuto in un quadro di austerità e mentre la compressione dei diritti sociali (a partire dal diritto di sciopero) continua ad andare avanti. Il primo target che il Regno Unito si è dato per il “living wage” è il 60% del salario mediano, contando di arrivare progressivamente ai 2/3 dello stesso. Come emerge dalle ricerche di Guglielmo Meardi, il salario minimo nel Regno Unito ha un fondamentale pregio: è un diritto individuale semplice da conoscere (anche per gli immigrati arrivati da poco) ed è relativamente semplice controllarne l’applicazione da parte delle autorità ispettive.

A che punto siamo, invece, in Italia? Formalmente non c’è un obbligo a intervenire per legge, dato il tasso di copertura della contrattazione collettiva. Il 13 novembre 2023, in un’intervista a La Stampa, il Commissario Ue Nicolas Schmit ha però correttamente dichiarato: “la direttiva non dice che i paesi che hanno un elevato livello di contrattazione collettiva non devono introdurre il salario minimo. È vero, ci sono paesi come l’Austria o la Svezia che non ne hanno bisogno. Ma l’Italia è un caso particolare perché ha un tasso di copertura della contrattazione collettiva, ma al tempo stesso presenta settori interi con stipendi molto bassi. E dunque la questione si pone”. Se infatti il tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia è formalmente al 100%, questo dato ha bisogno però di essere interpretato. Innanzitutto, esso non coglie l’incidenza del lavoro nero, dell’informalità, del falso lavoro autonomo. Ci sono poi i contratti pirata, i contratti con bassi minimi retributivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (è il caso della vigilanza privata), i significativi ritardi nel rinnovo dei CCNL (specie nel terziario). Il quadro complessivo è inoltre quello di una stagnazione salariale decennale che ha pochi eguali in Europa.

La proposta di legge delle opposizioni parlamentari, con l’eccezione di Italia Viva, si muove in questo contesto. È possibile individuarne alcuni forti limiti: la mancanza di un’indicizzazione automatica, la previsione di sostegni pubblici (non meglio definiti) per le imprese tenute ad adeguarsi, la mancanza di un adeguato apparato sanzionatorio, l’esclusione del lavoro domestico – il quale meriterebbe una maggiore attenzione per evitare di reiterare l’invisibilizzazione delle lavoratrici migranti in esso impegnate e per aprire, al contrario, una riflessione sulla necessaria universalizzazione del welfare e della cura. La proposta presenta anche dei significativi meriti, come l’individuazione di un sistema peculiare di determinazione salariale: il trattamento economico complessivo definito dai contratti comparativamente più rappresentativi, il trattamento economico minimo stabilito dalla legge (per ora fissato a 9€ lordi). Una soluzione che permetterebbe a legge e contrattazione di rafforzarsi a vicenda, evitando possibili fughe dal sistema di relazioni industriali e al contempo supportando quest’ultimo laddove la negoziazione collettiva fa più fatica. Che due delle tre maggiori confederazioni italiane abbiano aperto all’introduzione del salario minimo (Cgil e Uil) è un segnale positivo. Una combinazione con l’estensione legale dei contratti più rappresentativi, vista anch’essa come prioritaria, potrebbe rappresentare un pacchetto complessivo a tutela del lavoro, per quanto riguarda il salario ma anche l’insieme delle garanzie normative stabilite dai CCNL. In altri paesi, come il Belgio, salario minimo ed estensione dei contratti convivono positivamente (c’è ancora anche la scala mobile).

Bisogna inoltre segnalare che, durante le crisi inflattive, il salario minimo può essere più reattivamente adeguato rispetto alle più complesse dinamiche negoziali tra le parti – rappresentando così uno scudo di protezione dall’aumento dei prezzi almeno per le componenti più deboli e vulnerabili della forza lavoro (quelle con una più alta propensione marginale al consumo e che spendono una quota più consistente del proprio reddito in energia e alimentari). Sarah O’Connor sul Financial Times e Vincenzo Maccarone in un capitolo del libro sull’inflazione curato da Mario Pianta uscito recentemente per Carocci hanno messo in risalto proprio questo aspetto, nel contesto dell’ultima crisi. Sempre Sarah O’Connor ha inoltre sottolineato l’importanza del salario minimo come misura di giustizia sociale e questo al di là di considerazioni sull’incremento della produttività. Che nel quotidiano della City si possa tranquillamente dibattere sulla possibilità di far crescere le retribuzioni anche al di là degli aumenti di produttività è un segnale interessante per il dibattito pubblico. Dibattito pubblico all’interno del quale si potrebbe recuperare anche la vecchia lezione di Sylos Labini sulla “frusta salariale”, dove gli incrementi degli stipendi possono essere visti come vincolo al capitale: evitare la via bassa alla competizione, investendo in attività a più alto valore aggiunto – mettendo così in moto anche la dinamica della produttività.

Naturalmente il salario minimo non va visto, ingenuamente, come panacea di tutti i mali o come la soluzione definitiva ai problemi del lavoro povero. Questo non solo perché, stante l’opposizione del governo in carica, difficilmente il traguardo sarà a breve raggiunto. Bisogna infatti parlare di part-time involontario (che colpisce principalmente le donne), di precarietà come driver ulteriore di moderazione salariale (come fa meritoriamente l’ex presidente dell’Inps Tridico nel suo libro su salari e pensioni), di specializzazione produttiva del paese, di appalti e subappalti, di enforcement. Il sindacato dovrebbe inoltre aprire una riflessione autocritica sulla propria proposta di tagliare il cuneo fiscale: policy costosa, che scarica la questione salariale sulla fiscalità generale e indebolisce lo Stato come attore della politica economica. Inoltre, nei paesi in cui il salario minimo è in vigore non mancano naturalmente problemi. In Olanda, ad esempio, esistono livelli inferiori di salario minimo per i lavoratori con meno di 21 anni e la letteratura ha dimostrato che sono diffusi i casi di sostituzione di forza lavoro per tenere più bassi gli stipendi. In Germania la ricercatrice Barbara Orth ha evidenziato come molti immigrati o studenti internazionali indiani o sudamericani lavorino come riders nella gig economy (non certamente nota per le garanzie occupazionali) dopo esperienze di iper-sfruttamento nelle cucine di ristoranti – dove venivano pagati meno della metà di quanto formalmente previsto dal salario minimo. In Francia, il nuovo primo ministro Attal ha espresso una critica nei confronti dell’indicizzazione automatica del salario minimo, vista come leva di “egualitarismo”.

Ad ogni modo, in Italia, il salario minimo è un necessario terreno di lotta. Il solo dibattito attorno ad esso ha esercitato una funzione di pressione nel settore della vigilanza privata, con aumento delle retribuzioni per via contrattuale. Non ancora sufficiente ad assicurare una vita dignitosa, ma comunque un segnale che le cose possono cambiare. Questa lotta va inserita in un quadro analitico complessivo e deve intrecciare altre rivendicazioni, come ad es. la regolarizzazione di lavoratrici e lavoratori migranti o la definizione di politiche migratorie democratiche che non istituzionalizzino la subalternità socioeconomica e legale. Il resto lo farà poi la capacità dei sindacati di rinnovarsi, di presidiare e di organizzare i settori a più alta incidenza di lavoro povero. Avere a disposizione strumenti in più, come il salario minimo, può essere di aiuto.

 

“Una stagione di riformismo intelligente: i rinnovi del CCNL terziario 1994-98” - La relazione di Claudio Treves

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione di Claudio Treves

“Una stagione di riformismo intelligente: i rinnovi del CCNL terziario 1994-98”.

 

Per poter fare una riflessione adeguata sulla stagione contrattuale del ’94-’98 è necessario avere presenti sia il contesto normativo entro cui si svolse, sia l’atmosfera culturale che attraversava allora il Paese e in particolare le organizzazioni di rappresentanza, sia sindacale che datoriale.

Siamo nel decennio della grande inflazione e dello sforzo italiano per raggiungere le condizioni per l’accesso all’Unione Europea in formazione (i Trattati di Maastricht sono del 1991); Tangentopoli è un evento recentissimo e ancora in corso, le formazioni politiche sono o profondamente travagliate (il PCI ha dato vita a due formazioni, il PdS e Rifondazione Comunista), o in esplosione (il PSI) o in lacerazione profonda (la DC, divisa tra destra cattolica e popolarismo cristiano), la Lega Nord è già una realtà in via di consolidamento, Berlusconi ha appena annunciato la sua “discesa in campo” (marzo 1993); in questo contesto di “fluidità istituzionale” la mafia sferra il suo maggiore attacco alla Repubblica, scegliendo la via stragista (Falcone e Borsellino, via Georgofili a Firenze, le chiese di Roma). E’ il tempo del primo dei governi tecnici che contrassegneranno l’Italia, guidato da Carlo Azeglio Ciampi, che sceglie l’interlocuzione con i sindacati confederali come leva sia per risanare il Paese (l’”ingresso in Europa”), sia – e forse soprattutto – per rinsaldarne la coesione sociale e anche morale. Così nasce il Protocollo sulla politica dei redditi siglato da tutte le rappresentanze sociali il 23 luglio1993, e oggetto di approvazione da parte dei lavoratori tramite una consultazione che si svolge dal 3 luglio (data della siglatura).

Il Protocollo – nella parte che qui interessa – rappresenta una sorta di “secondo tempo” e di riparazione per un altro Protocollo, sottoscritto l’anno prima (31 luglio), drammaticamente “imposto” alla Cgil e al suo segretario Trentin attraverso il ricatto del governo Amato, delle controparti, della Cisl, della Uil e della componente socialista della Cgil : in esso si sopprimeva la scala mobile, “compensata” con un elemento economico di Lit 20000 da non includere nelle paghe base e si congelava la contrattazione aziendale per 18 mesi. L e conseguenze nel mondo del lavoro furono enormi, e nella Cgil divampò una tensione altissima, acuita dalla contestuale lettera di dimissioni di Trentin, con la quale egli dichiarava di aver sottoscritto quel testo inaccettabile al solo scopo di non esporre la Cgil all’accusa di aver sabotato l’intesa e pertanto di essere responsabile della catastrofe (va ricordato che poche settimane dopo quella firma il governo svalutò la lira del 20%, introdusse un prelievo forzoso su tutti i conti correnti, pose le basi per la privatizzazione delle Partecipazioni Statali, introdusse la possibilità di soggetti privati in sanità), ma che così facendo di essere venuto meno al mandato ricevuto e pertanto dover rassegnare le dimissioni. Con il Protocollo del 23 luglio si tentò di recuperare un quadro di riferimento condiviso, che ricomponesse la frattura dell’anno precedente, rilanciando il ruolo delle parti sociali in un’ottica proattiva e non punitiva verso il lavoro: lo si fece definendo il quadro di controllo dell’inflazione entro cui si sarebbe sviluppata la contrattazione collettiva, stabilendone gli assetti e bilanciando con l’azione pubblica (investimenti e controllo dei prezzi e tariffe) quanto si veniva a cristallizzare sul piano macroeconomico. Detto più chiaramente si applicava la “politica dei redditi”, ipotizzando che i salari si sarebbero evoluti riferendosi ad un tasso d’inflazione programmato da definirsi trilateralmente (Governo, datori di lavoro, sindacati), con prezzi e tariffe che non avrebbero dovuto aumentare in misura maggiore del tasso programmato, la durata dei contratti nazionali sarebbe stata quadriennale con una verifica degli eventuali scostamenti tra i tassi inflattivi programmati e quelli reali da effettuarsi dopo un biennio, e la contrattazione “di secondo livello” (che voleva significare sia aziendale che territoriale) avrebbe dovuto riguardare materie non trattate nei CCNL ed avere quali elementi economici solo quelli di natura variabile e collegati a parametri di redditività. produttività, qualità della prestazione, cui si sarebbe applicato un regime fiscale vantaggioso e che non avrebbero avuto incidenza su altri elementi della retribuzione (mensilità differite, straordinario, ecc.). Al fine di assicurare uno svolgimento senza traumi dei rinnovi contrattuali si convenne che in caso di mancato rinnovo dopo tre mesi dalla scadenza del contratto precedente o dalla presentazione della piattaforma rivendicativa si sarebbe dovuto corrispondere ai lavoratori un’indennità di vacanza contrattuale pari al 30% del tasso d’inflazione programmato, che sarebbe salita al 50% se l’assenza di rinnovo si fosse prolungata oltre il sesto mese. Si aggiunse alla fine un codicillo allora molto apprezzato sia dal sindacato che dalla Confcommercio, che invitava il Governo ad emanare un provvedimento amministrativo per estendere alla generalità dei comparti interessati le condizioni economiche previste dai CCNL. Come si sa, non se ne fece nulla.

Un capitolo specifico del Protocollo riguardava il mercato del lavoro, prevedendo l’introduzione nell’ordinamento italiano del lavoro interinale (poi avvenuta con il Pacchetto Treu del 1997), insistendo fortemente sul ruolo della contrattazione collettiva e sulla natura temporanea del rapporto, e rafforzando l’allora principale e quasi unico rapporto “atipico”, il contratto di formazione/lavoro (in sigla il cfl). Va ricordato a tal proposito che il part-time era stato oggetto di normativa legale nel 1984, e sarebbe stato oggetto di molti interventi solo a partire dal 2000 (Decreto legislativo 61), mentre la disciplina contrattuale risaliva – per le imprese della grande distribuzione – al 1973 (accordi del Parco dei Principi), e per il CCNL al rinnovo del 1990.

Ultimo punto da ricordare, venne introdotto un sistema di rappresentanza dei lavoratori tuttora in vigore, sia pure con alcuni correttivi intervenuti nel frattempo, fondato sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie, poi disciplinato dai rinnovi contrattuali successivi (per il terziario, quello del 1994).

Un’ulteriore premessa va ricordata, avvicinandoci in questo modo all’analisi dei CCNL del Terziario: parliamo esclusivamente di Confcommercio, perché allora la rappresentanza contrattuale ed istituzionale del mondo del terziario commerciale e turistico era unica, pur avendo al proprio interno tensioni spesso aspre tra “grandi” e “piccoli”, o tra settori (informatica, pubblicità), ma ciò non impediva un’azione interna ed esterna unitaria del mondo rappresentato. Per brevità non menziono qui né la Confesercenti né il mondo cooperativo, perché la prima firmò sempre i rinnovi in modo identico e successivo al testo Confcommercio, e la disamina della storia contrattuale del mondo cooperativo richiederebbe una trattazione a parte.

Siamo in grado adesso di analizzare i rinnovi del ’94 e del ’98, che faremo in modo sia distinto che comparato, a seconda del tema trattato.

 

  1. Relazioni tra le parti, bilateralità e mercato del lavoro

Il testo si apre con una Premessa, che riprende il riferimento al Protocollo del 23 luglio, richiamandone in sintesi scopi e finalità, e intendendo dare vita ad un sistema di relazioni di comune responsabilità, ed aggiunge per la prima volta una procedura per il rinnovo del CCNL al fine di disciplinarne lo svolgimento e conseguentemente anche lo spazio per l’azione di sostegno alle rivendicazioni: la piattaforma rivendicativa andrà presentata tre mesi prima della scadenza del CCNL, e per un periodo di quattro mesi successivi alla presentazione della piattaforma le parti non potranno dare corso ad azioni di  mobilitazione e/o di lotta, ma in caso di mancato accordo dopo tre mesi dalla presentazione della piattaforma varrà corrisposto ai lavoratori un elemento retributivo chiamato “indennità di vacanza contrattuale” pari al 30% del tasso d’inflazione programmato, che salirà al 50% se la carenza contrattuale supera i sei mesi. Com’è evidente, si tratta di un meccanismo volto ad incentivare comportamenti “virtuosi” per i rinnovi contrattuali, tali da farli diventare elementi di una “fisiologia delle relazioni tra le parti”, che purtroppo si è da tempo perduta: va ricordato che la stagione dei rinnovi del ’94 si svolse senza il ricorso allo sciopero, neppure in settori tradizionalmente conflittuali come i metalmeccanici. E se si vuole indicare una data per quella rottura la indicherei nel rinnovo del biennio dei metalmeccanici del 2000, primo di una stagione di accordi separati, poi proseguiti col Patto per l’Italia.

Segue la risistemazione dei diritti di informazione, da esercitarsi sia a livello nazionale per l’intero ambito contrattuale (interlocutori Confcommercio e Federazioni nazionali), sia a livello territoriale, che a livello aziendale per imprese con più di 400 a livello nazionale. I diritti d’informazione sono propedeutici alla contrattazione territoriale ed aziendale, che dovrà svolgersi (secondo le indicazioni del Protocollo del 23 luglio), su materie non trattate a livello nazionale, che nel ’94 vengono identificate per la contrattazione territoriale nelle questioni legate al mercato del lavoro (formazione e convenzioni per le fasce deboli), nonché nelle politiche degli orari (fissazione, articolazione e flessibilità degli orari), di cui appresso. In questo capitolo va inserita l’istituzione degli enti bilaterali, quali luoghi dove istruire ed esaminare le istanze relative a quelle materie, nonché all’esame dei progetti di formazione per le assunzioni a cfl. Non c’è un riferimento ad una contrattazione salariale (cosa che avverrà nel rinnovo del Turismo del 1999), e la costituzione degli enti è di competenza territoriale, salvo un riferimento al costituendo Ente bilaterale nazionale, le cui funzioni sono svolte fino al rinnovo successivo dall’Osservatorio nazionale. In questa parte è prevista la costituzione di strumenti bilaterali di monitoraggio e proposta (pari opportunità, tutela della dignità della persona, classificazione) e viene disciplinato sia il sistema di rapporti tra le parti per monitorare la corretta gestione del CCNL (Commissione paritetica), sia per i contenziosi individuali riguardanti l’interpretazione del CCNL (altra Commissione paritetica), entrambe oggetto di finanziamento di fonte contrattuale.

Questa parte nel 1998 viene sostanzialmente confermata riguardo ai diritti d’informazione e ai livelli contrattuali, ma viene significativamente ampliata la sfera della bilateralità, che assume un assetto più “logico” e coerente con un CCNL che delega materie al secondo livello: si costituisce infatti l’Ente Bilaterale nazionale, cui sono delegati i compiti di monitoraggio riguardo ai nuovi istituti previsti dal Protocollo del 23 luglio e successivi sviluppi (in particolare il lavoro temporaneo); e sovrintende alla costituzione degli enti bilaterali territoriali, che a loro volta diventano i luoghi di raccolta delle informazione sui nuovi rapporti (apprendistato riformato, anche se rimarrà presto sulla carta, interinale, formazione/lavoro); acquisisce e monitora le informazioni riguardanti l’articolazione degli orari.

Il rinnovo del ’98 modifica invece la parte relativa al contenzioso individuale, recependo i termini del D.Lgs.80/98 che aveva introdotto un tentativo obbligatorio di conciliazione da esperirsi alternativamente in sede sindacale o presso le Direzioni territoriali del Lavoro prima di ogni ricorso in magistratura, e disciplinando anche il ricorso all’arbitrato, definito di natura necessariamente volontaria da parte di entrambe le parti e da esperirsi sulla base della normativa legale e contrattuale applicabile (da notare che questo sarà un tema di ulteriori rotture tra la Cgil e i futuri Governi di centro-destra, ma che si profilò già nel mancato accordo su questi temi con Confindustria nel 1999, per giungere nel 2011 all’unica legge di governi di centro-destra che il Presidente della Repubblica rinviò alle Camere per manifesta incostituzionalità…).

Per quanto riguarda la contrattazione aziendale, nel ’94 si introduce la regola derivata dal protocollo del 23 luglio riferita alla natura che d’ora in poi dovrà avere la contrattazione salariale (variabilità dell’importo e collegamento con parametri di redditività, produttività e qualità del lavoro): si aprirà da questo momento una stagione di importanti rinnovi contrattuali soprattutto nella grande distribuzione in cui la categoria si è cimentata con creatività ed impegno a istituire meccanismi salariali in grado di assicurare da un lato la loro “comprensibilità” per i lavoratori coinvolti (il che ha significato la relativa marginalità degli importi riferiti a “redditività” visto che specie in caso di imprese multinazionali la composizione dei bilanci risulta oggettivamente di difficile intervento da parte delle rappresentanze sindacali), dall’altro al maggior legame possibile con gli interventi concordati tra le parti sull’organizzazione del lavoro (lavoro di gruppo, modifiche dei nastri orari e maggior o migliore utilizzo degli impianti), cercando di utilizzare al massimo i parametri di “produttività e qualità del lavoro”, per evitare che prevalesse la semplice valutazione sull’andamento di costo del lavoro e fatturato cui aspiravano le imprese. Un problema particolare rappresentò la discussione su dove misurare gli incrementi di produttività e qualità del lavoro, essendo chiaro che il parametro “redditività” doveva riguardare l’intero complesso aziendale (cioè tutti i lavoratori), mentre le modifiche all’organizzazione del lavoro erano (e sono) tipicamente agite a livello di singola unità produttiva. Ne scaturirono sistemi complessi, a volte fin troppo, e di non sempre facile  gestione, ma va ricordato lo sforzo prodotto dalla categoria perché fu segno di una stagione “creativa” di elaborazione sull’organizzazione del lavoro nella grande distribuzione, cui solo più tardi (dalla fine degli anni ’90) corrispose la reazione delle imprese volta a riguadagnare un controllo più completo sull’organizzazione del lavoro, grazie – anche – alle modifiche legislative sul mercato del lavoro che si venivano profilando, volte a rompere il delicatissimo equilibrio raggiunto col Protocollo del 23 luglio.

E’ giunto quindi il momento per affrontare queste problematiche nei rinnovi del ’94 e ’98.

Va detto che il capitolo “Mercato del lavoro” aveva già conosciuto una trattazione nei rinnovi precedenti, essenzialmente limitato alla definizione degli istituti del contratto a termine e del cfl, mentre l’apprendistato veniva lasciato sostanzialmente inalterato da molti anni. E’ da notare che il part-time era già trattato fin dal rinnovo del 1990 all’interno del capitolo sull’orario di lavoro, a differenza di quanto accadeva nei CCNL delle altre categorie, a riprova del fatto che si trattava (e si tratta) di un istituto “non atipico” nel terziario privato.

Per comprendere il senso delle disposizioni sul contratto a termine del ’94 e riconfermate nel ‘98 va ricordato che allora si prevedeva un ruolo sostanzialmente totale della contrattazione collettiva nel fissare le causali giustificative (derivante dalle disposizioni della legge 56/87), e pertanto il CCNL riprende la sistemazione “classica”: si può assumere a termine per incrementi di attività, stagionalità, sostituzione di lavoratori assenti. Interessante notare – rispetto al disastro attuale – che il CCNL fissa un minimo ed un massimo di durata (minimo un mese, massimo dodici), e introduce per tutti il diritto di precedenza vuoi rispetto a nuove assunzioni a tempo indeterminato che a ulteriori rapporti a termine. Si stabilisce altresì una percentuale massima del 10% sull’organico per il ricorso a tale tipologia d’impiego, che può essere modificata a livello di contrattazione territoriale e/o aziendale. Viene previsto un obbligo di comunicazione da parte dell’impresa alla Commissione dell’Ente bilaterale territoriale corrispondente, nella quale l’impresa deve dichiarare, oltre alla propria appartenenza a Confcommercio, l’integrale applicazione del CCNL e l’osservanza degli obblighi di legge in materia contributiva: nel caso la Commissione può richiedere ulteriori informazioni ed eventualmente sospendere la richiesta.

Segue la disciplina dei cfl, che distingue sia durata che quantità di formazione secondo il livello di inquadramento del lavoratore da assumere. Il sottoinquadramento è fissato in un livello, e si ripete la funzione di esame e controllo delle istanze da parte dell’apposita commissione dell’ente bilaterale.

Il rinnovo del ’98 aggiunge una causale interessate per ricorrere al contratto a termine, ossia la copertura dell’eventuale ricorso – da parte di una lavoratrice – al passaggio a part-time post maternità che viene appunto disciplinato per la prima volta con questo rinnovo, e di cui parleremo più diffusamente nel capitolo sugli orari; non modifica le norme sui clf, concentrandosi invece sull’introduzione del lavoro interinale (disciplinato allora dalla legge 196/97 - cosiddetto pacchetto Treu), e sull’apprendistato, oggetto allora di un profondo tentativo di modifica e rivitalizzazione che risulterà sostanzialmente sterile perché rapidamente soppiantato dalle modifiche introdotte con il successivo D.lgs. 276/03 (cosiddetta legge Biagi). Andando per ordine, seguendo quanto disposto dalla legge, si identificano in sostanziale assonanza con quanto previsto per il contratto a termine le causali per il ricorso al lavoro interinale, si escludono dal ricorso a questo rapporto di lavoro le figure inquadrate ai due livelli inferiori dell’inquadramento definite come “caratterizzate da esiguo contenuto professionale”, si fissa al 13% la percentuale massima di ricorso a tale istituto. Riguardo all’apprendistato, si modifica l’età massima per lo svolgimento di questo rapporto (da 20 a 24-26 anni), si introduce una retribuzione in percentuale, evolventesi nel corso della durata del rapporto dal 70 al’85% della retribuzione del lavoratore qualificato corrispondente,, si definisce la durata del periodo in 18 mesi per le qualifiche proprie del 5° livello, e 24 per quelle del 4°, graduando la formazione esterna a seconda del titolo di studio posseduto (da 120 ore per chi ha il titolo dell’obbligo a 60 ore per chi è in possesso della laurea). Si introduce poi uno “scambio” tra allungamento della durata del periodo di apprendistato a 36 mesi, estensione della possibilità di assumere apprendisti anche a livelli superiori al quarto, e conferma di almeno il 60% degli apprendisti assunti, da effettuarsi attraverso il ruolo della bilateralità del livello corrispondente. Come detto, di questo complesso di norme resterà poco per il successivo “irrompere” delle modifiche legislative di ispirazione più liberista ed autoritaria, ma è significativo di un approccio di “flessibilità regolata” con un ruolo regolativo della bilateralità che - almeno formalmente - poteva marcare un incoraggiamento ai comportamenti virtuosi da parte delle imprese e delle rappresentanze sindacali. Del resto, proprio su questa base fu possibile, per i rinnovi del 2003-4 “resistere” a quelle innovazioni e mantenere – specie su alcuni istituti – un assetto di tutele significativo, almeno fino alla successiva stagione di rotture sindacali e di mancati rinnovi.

 

  1. Orari di lavoro e part-time

Il tema dell’orario di lavoro è stato molto intrecciato nell’elaborazione della categoria con le disposizioni legislative, che fino alla liberalizzazione avvenuta con le “lenzuolate” di Bersani (primo Governo Prodi del 1997), regolavano l’apertura dei negozi. Di qui la necessità per le parti di regolare “modelli di orario” già nel CCNL, con possibilità, per il secondo livello, di adottare e/o integrare i modelli a seconda delle intese raggiunte sull’organizzazione del lavoro. Per questo, a partire dal rinnovo del ’90, nel CCNL si trovano modelli di fissazione dell’orario settimanale che variano dalle 40 ore “classiche” con pacchetto di permessi pari alle sei ex festività soppresse (48 ore), a sistemi di orario flessibili e/o ridotti a 39 e 38 ore, con conseguente utilizzo di parte del pacchetto di permessi e loro incremento col rinnovo del ’94 in modo da raggiungere le 38 ore di orario effettivo, fermo restando che ai fini contrattuali e di legge l’orario resta a 40 ore.  Schematizzando la disciplina è così sintetizzabile:

Orario di lavoro 40 ore 40 ore con flessibilità 39 ore 38 ore
Pacchetto permessi 72 ore, di cui 24 utilizzate/48 residue 72 ore, con 16 utilizzate/56 residue 72 ore, con 36 utilizzate/36 residue 96 ore, di cui 72 utilizzate/ 24 residue

La disciplina viene arricchita nel ’94 con la facoltà di ricorrere all’articolazione plurisettimanale dell’orario, in modo da assecondare le fluttuazioni dei flussi di vendita, inaugurando una linea contrattuale che ruoterà su diversi elementi:

  1. Il numero di settimane ammesse per lo sforamento e l’ampiezza dello sforamento stesso;
  2. La compensazione sia in termini di riduzione d’orario che di salario;
  3. La procedura da seguire per l’attivazione della flessibilizzazione dell’orario;

Nel ’94 si convenne un numero massimo di 16 settimane di sforamento a 44 ore, con pari compensazione di orario e settimane (16 settimane a 36 ore), con possibilità per il secondo livello di arrivare rispettivamente a 24 settimane a 48 ore di orario; ferma restando la titolarità della contrattazione a livello aziendale di misurarsi sul tema dell’articolazione dei nastri orari, la procedura prevedeva il vincolo per l’impresa di comunicare contestualmente ai propri dipendenti e all’Osservatorio territoriale della bilateralità l’articolazione annuale dell’orario annuale entro il 30 novembre dell’anno precedente.

Nel rinnovo del ’98 si aggiunge la banca delle ore, con la quale anche il capitolo sulla flessibilità dell’orario si arricchisce (e si complica), in quanto viene stabilità la devoluzione del 50% delle ore svolte in eccesso rispetto all’orario normale, nonché una quota di minuti (pari a 45 o 70 per ogni ora eccedente l’orario normale fino a rispettivamente le 44 o le 48 ore) incrementali rispetto alla quantità di ore di permesso rimanenti (24, come risulta dalla tabella) . Come si vede da questa ricostruzione, si è voluto trovare un equilibrio tra interessi confliggenti che la soluzione “puramente aritmetica” del ’94 non consentiva (tante settimane di sforamento/ altrettante di riduzione). In altre parole, con l’introduzione della banca delle ore si puntava ad introdurre “gradi di libertà” per i lavoratori riguardo alla possibilità di gestire con maggior autonomia individuale la prestazione lavorativa rispetto alla rigidità dell’orario.

In tale contesto la disciplina del part-time presentava particolare delicatezza. Infatti, se la normativa di legge, risalente come già ricordato alla metà degli anni ’80, si fondava sui principi di volontarietà e reversibilità della prestazione, la spinta delle imprese e la particolare fattispecie del lavoro in ambito commerciale, scandito dai flussi di clientela variabili nel corso della giornata, della settimana e dell’anno, puntavano ad una concentrazione degli orari per le persone a tempo parziale addensati nei momenti di maggior affluenza (sera, fine settimana, ecc.), il che poneva delicati problemi di bilanciamento tra esigenze contrapposte. Di qui da un lato la lunga storia di trattazione dell’istituto nella contrattazione collettiva di settore, risalente come ricordato al 1973 per la grande distribuzione e al 1990 per il CCNL, dall’altro la costante necessità di aggiornare la disciplina.

Nel rinnovo del ’94 si confermava l’assetto ereditato dal rinnovo precedente, definendo ile durate inferiore e superiore rispetto alla settimana, al mese, e all’anno; in particolare per quella ridotta settimanale, compresa  “di norma” tra le 12 e le 25 ore,  si dichiarava l’intento di “ricondurre la prestazione all’interno dei regimi di orario esistenti in azienda”, il che poteva cozzare, come si verificò, con la natura individuale del rapporto di lavoro, il che comportava che, salvo esplicita modifica del contratto individuale, l’inserimento dei lavoratori a part-time all’interno dei turni avvicendati non sarebbe potuto accadere. Si definiva la possibilità di svolgere lavoro supplementare, e se ne fissava la maggiorazione per il lavoro supplementare al 27%, forfettizzando così l’incidenza delle mensilità supplementari e delle ferie (8,33*3), che così sarebbero state erogate secondo la semplice regola della proporzionalità riferita all’orario ridotto.

Non stupisce, quindi, che nel rinnovo del ’98 la formula della riconduzione ai regimi d’orario sia stata fatta cadere, contemporaneamente all’aumento dell’orario settimanale minimo da 12 a 15 ore, e che la maggiorazione per il lavoro supplementare sia stata elevata al 35%, comprensiva dell’incidenza di tutti gli istituti contrattuali, tfr compreso. Si è inoltre introdotta un’ulteriore tipologia d’impiego a part-time, come già accennato, corrispondente alla facoltà, prevista da questo rinnovo, di trasformare il proprio rapporto da tempo pieno a part-time per il periodo post-maternità, con garanzia di ritorno automatico a tempo pieno a meno di diversa determinazione della lavoratrice. E ancora, norma che fece molto scalpore all’epoca, la facoltà di assumere a otto ore al sabato per studenti e lavoratori impiegati con altro rapporto a part-time. Tutte forme di “flessibilità regolata” per conciliare le esigenze d’impresa con gradi di autonomia da assicurare alle persone. Va sottolineato come questo impianto sia stato preso a riferimento per la trasposizione nella legislazione italiana della Direttiva Europea sul part-time, contenuta nel D.Lgs. 61/00 elaborato dal compianto Professor Massimo Roccella per conto del Governo italiano (allora presieduto da Massimo D’Alema), ed abbia resistito nel rinnovo del 2004 a fronte delle successive modifiche legislative già ricordate che abrogarono il citato decreto legislativo in favore di una normativa molto più in sintonia con le esigenze di utilizzo senza regole propugnate dalle imprese.

E con questo siamo giunti in certo senso a tirare le fila di quanto siamo venuti dicendo, e del perché abbia usato quel titolo alla presente rievocazione.

 

Conclusione

I rinnovi rievocati sopra si collocano in un contesto ampiamente scomparso e – oggi – difficilmente riproponibile, salvo profondi cambiamenti.

Da un lato un contesto istituzionale che riconosceva alle parti sociali un ruolo attivo, e puntava alle convergenze tra le opposte istanze, con un ruolo attivo in tal senso delle istituzioni e delle forze politiche; dall’altro le stesse forze sociali venivano ad essere sollecitate ad una funzione costruttiva e al tempo stesso attenta alle esigenze generali del Paese e delle controparti. Non dimentichiamo che fu la stessa Confcommercio nel 1996, in occasione del rinnovo del biennio economico del CCNL ad avanzare la necessità di normare “le nuove forme di lavoro”, e da ciò seguì la prima disciplina collettiva del lavoro da remoto (1997), e l’avvio di un confronto poi naufragato di disciplinare le collaborazioni coordinate e continuative (allora “scoperte” dalla riforma previdenziale del 1995). Insomma, si confliggeva, certo, ma si cercavano soluzioni al conflitto che non fossero semplicemente il riconoscimento della primazia di una parte e di un “punto di vista”. Ciò fu definitivamente sotterrato con l’avvento al Governo della coalizione di centro-destra e con le parole dell’allora Ministro Martino che da bravo allievo di Milton Friedman definì la concertazione un errore da non ripetere, perché foriera di un “diritto di veto delle organizzazioni sindacali” inaccettabile per chi riponeva nel solo mercato la garanzia delle soluzioni ottimali. Del resto, simili “venti di guerra” erano stati preannunciati fin dal 1999 con il mancato accordo sulla trasposizione della Direttiva europea sui contratti a termine, e sulla disciplina del contenzioso individuale, cui seguì nel 2001 quale “biglietto da visita” del Governo Berlusconi il D.lgs. 368 che eliminava le specifiche causali di legge per attivare un contratto a termine sostituite dal “causalone” (“esigenze di carattere tecnico, produttivo, sostitutivo”): seguì il Libro bianco sul mercato del lavoro redatto da Biagi e colleghi sotto la supervisione di Sacconi e la battaglia del Circo Massimo in difesa dell’articolo 18, sfociata poi nel Patto per l’Italia e la lunga stagione della rottura sindacale. Ed è rimarchevole sottolineare come nella stagione di resistenza dei rinnovi contrattuali del 2003-2004 alle novità introdotto col D.Lgs.276 il rinnovo del terziario si distinse per la tenuta di un’impostazione che ho cercato di riassumere in queste note. Dopo, purtroppo, le ragioni di rottura prevalsero.

Non sarebbe tuttavia onesto se non indicassi anche quelle che -a mio modestissimo giudizio- sono le ragioni interne al modello qui descritto che lo resero debole a fronte delle forze avverse: essenzialmente direi che la debolezza maggiore del modello del 23 luglio sta nell’obiettivo perseguito, ossia la cristallizzazione dei rapporti di forza (e della conseguente ripartizione delle risorse) fra capitale e lavoro. Specie a fronte di modifiche rilevantissime sul piano delle tecnologie e delle ragioni di scambio internazionali, immaginare di mantenere inalterati i rapporti tra le classi si dimostrò un’aspirazione impossibile da realizzare; bastò infatti il venir meno dell’azione calmieratrice della mano pubblica, e poi il cambio di maggioranza e di “cultura”, perché i rapporti tra i salari e gli altri redditi subissero a partire dalla seconda metà degli anni ’90 una discesa che ancor oggi non si è stati in grado di recuperare.

Più nello specifico, vorrei segnalare come l’ipotesi di rinnovi basati su tassi d’inflazione programmati (sia pure con il recupero biennale) non fosse strutturalmente in grado di intervenire ad es. sulle scale parametrali e quindi sui percorsi di miglioramento delle competenze (e dei riflessi anche salariali) dei lavoratori, lasciando così spazi eccessivi all’unilateralità delle imprese. Se si aggiunge la scelta esplicita del Libro bianco di attaccare le tutele dei lavoratori come condizione affinché l’Italia potesse reggere alla sfida della globalizzazione si comprende perché quel modello non potesse che entrare in crisi. Resta – tuttora – un vuoto strategico su come lo si possa rimpiazzare, viste le inadeguatezze di quanto è stato fatto riguardo al modello di contrattazione, sia con accordi non unitari (2009), sia unitariamente (il Patto del 2018). Ma questa è un’altra storia.

 

“Con la Palestina nel cuore”. L’intervento di apertura di Claudia Nigro

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Intervento di apertura di Claudia Nigro
(Segretaria Generale FILCAMS CGIL Brindisi)

Con la Palestina nel cuore

 

L’Articolo 2 dello Statuto della Cgil, tra i principi fondamentali, cita: “… considera la pace tra i popoli bene supremo dell’umanità. La CGIL ispira la propria azione alla conquista di rapporti internazionali per i quali tutti i popoli vivano insieme nella sicurezza e in pace, impegnati a preservare durevolmente l’umanità e la natura, liberi di scegliere i propri destini e di determinare le proprie forme di governo, di trarre vantaggio dalle proprie risorse, nel quadro di scambi giusti e rivolti al progresso e allo sviluppo equilibrato tra le diverse aree del mondo, a partire da un rapporto equilibrato tra i Paesi industrializzati e quelli del Sud del mondo, ad un nuovo ordine economico, ecologico, culturale e in materia di diritti umani.

La CGIL considera la solidarietà̀ attiva tra i lavoratori di tutti i Paesi, e le loro organizzazioni sindacali rappresentative, un fattore decisivo per la pace, per l’affermazione dei diritti umani, civili e sindacali e della democrazia politica, economica e sociale, per l’indipendenza nazionale e la piena tutela dell’identità̀ culturale ed etnica di ogni popolo”.

Il conflitto Israelo-Palestinese ha radici lontane, profonde e complesse. E’ un conflitto che dura da più un secolo. Non si può cedere a semplificazioni.

Perciò mi limiterò a dire che la “Storia” non inizia il 7 ottobre 2023 e che l’espansione degli insediamenti israeliani e l’occupazione della Cisgiordania che ha sfrattato ingiustamente i palestinesi dalle loro case, ha favorito le disuguaglianze, ha privato i palestinesi dei loro diritti economici e sociali e ha creato una frammentazione territoriale che rende più difficile il raggiungimento di una soluzione a due Stati.

Il segretario generale dell’ONU, Guterres, è finito sotto accusa da parte del ministro degli esteri israeliano dopo averlo affermato.

L’attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre, contro la popolazione israeliana, contro donne, bambini e anziani è un atto ignobile.

Non può essere giustificato il brutale massacro di oltre 1200 persone e il rapimento di circa 240 civili, tra cui più di 30 bambini e 24 lavoratori immigrati dalla Thailandia.

Ma lo schema secondo cui esiste “un aggressore e un aggredito”, semplificazione già utilizzata nella guerra in Ucraina, non può “adattarsi” alla questione palestinese.

La reazione del governo israeliano contro la popolazione palestinese è stata sproporzionata e indiscriminata.

L’aggressione di Hamas è stata usata come scusa per ogni barbarie, più di 1 milione di abitanti di Gaza sfollati, 11.000 persone, tra cui donne anziani e bambini uccisi, migliaia di feriti.

L’esercito israeliano ha raso al suolo case, ospedali, scuole e infrastrutture.

Siamo di fronte ad un vero crimine contro l’umanità il cui obiettivo è quello di rendere impossibile la vita a Gaza.

Urge una soluzione politica all’odio e alla violenza, ma la tragedia, la perdita di vite umane e il caos del momento attuale rappresentano un appello urgente alla comunità internazionale, compresa la società civile, affinché dia priorità alla riconciliazione, alla pace e ad un percorso verso una soluzione.

In un momento in cui le emozioni sono forti e la retorica è amplificata dai politici e dai canali dei social media, è importante riconoscere che il sostegno ai diritti e all’autodeterminazione dei palestinesi non è antisemita. Allo stesso tempo, l’antisemitismo e l’islamofobia sono in aumento; nessuno dei due sentimenti può essere accettato o lasciato trionfare.

I tribunali sono le sedi in cui i crimini di guerra devono essere perseguiti, non il campo di battaglia. Tutte le parti in conflitto hanno l’obbligo legale di sostenere il diritto umanitario internazionale e i diritti umani, compresi i diritti dei bambini e delle donne.

Si stima che i bambini rappresentino il 40 per cento di tutti i morti a Gaza dall’inizio della guerra.

L’abuso sessuale sul corpo delle donne è un’aberrante costante storica in tutti gli scenari di guerra sin dai tempi più antichi, da parte di uomini di qualsiasi origine e religione. Le donne sono le più esposte al rischio di sfruttamento e di violenza di genere e non vi è alcuna parte di mondo, purtroppo, che non la usi.

Che fare?

La sorprendente mobilitazione popolare che ha attraversato le capitali europee a sostegno del popolo palestinese ha rotto la semplificazione dominante, che vede l’equazione palestinesi-Hamas-Isis costruita dalla narrazione israeliana e occidentale, così come la riduzione della resistenza palestinese, a solo fenomeno terrorista.

Ha aperto un varco di speranza.

Un varco che però va riempito con una proposta politica in grado di mobilitare ancora.

Tra le più corpose manifestazioni ricordo quelle di Parigi e Londra, passate pressoché inosservate dalla stampa nostrana.

La partita e la possibile soluzione politica non si giocano esclusivamente a Gaza e/o in Palestina/Israele.

C’è una dimensione internazionale che troppo spesso passa in secondo piano o addirittura sparisce.

Eppure si tratta di un fronte decisivo.

Il mondo del lavoro può levare la sua voce di indignazione e praticare azioni concrete in supporto e in difesa dei civili palestinesi, per ottenere il cessare il fuoco e per fermare la mattanza.

Il lavoro organizzato, in un’ottica internazionalista, di giustizia globale e di rispetto dei diritti umani, può e deve mobilitarsi per dire “no” al massacro.

Il 16 ottobre 2023 - facendo anche riferimento agli arresti e alla detenzione amministrativa subiti da molti lavoratori palestinesi in Israele - sindacati, lavoratrici e lavoratori palestinesi hanno lanciato un appello globale di solidarietà per allargare e intensificare la mobilitazione contro l’invio di armi a Israele. 

Le risposte non hanno tardato ad arrivare.

I sindacati indiani si sono pronunciati contro un nuovo accordo per la fornitura di manodopera come forma di ostilità al genocidio in corso. Hanno denunciato l’iper-sfruttamento del popolo palestinese colonizzato, che è funzionale allo sfruttamento normalizzato di altri lavoratori migranti e per questo hanno affermato che la manodopera indiana andrebbe a coprire le posizioni maggiormente subalterne all’interno dell’economia israeliana.

Unison, il sindacato dei servizi pubblici britannici, in un comunicato ha chiesto un immediato cessate il fuoco, facendo riferimento al crescente numero di morti causato dai bombardamenti israeliani e al collasso dei servizi vitali a Gaza (come quelli sanitari), chiedendo al contempo il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas, nonché mostrando preoccupazione per la crescita di islamofobia e antisemitismo.

Unison ha inoltre invitato i propri iscritti a prendere parte alle manifestazioni in sostegno al popolo palestinese e a fare pressione sui membri del Parlamento per chiedere al governo azioni politiche concrete per la pace e il riconoscimento dello Stato palestinese. Si è impegnata a effettuare donazioni alle organizzazioni umanitarie che assistono il popolo palestinese, invitando le sezioni locali a fare lo stesso.

Sempre dal Regno Unito, Iwgb, sindacato di base molto attivo nel promuovere le lotte dei lavoratori migranti nei settori a bassi salari e basse tutele come i servizi esternalizzati e la gig economy, in un comunicato del 31 ottobre ha condannato duramente l’azione militare, chiedendo la fine dell’occupazione e ricordando come la lotta del popolo palestinese per la propria autodeterminazione sia una «lotta anti-coloniale e anti-apartheid e come tale è supportata da milioni di lavoratori di tutte le fedi e di ogni provenienza, incluse comunità ebraiche e musulmane, in giro per il mondo». Iwgb ha espresso la propria preoccupazione per ogni forma di razzismo (antisemitismo, islamofobia, razzismo contro le persone di colore) e - richiamando l’appello dei sindacati palestinesi - ha espresso il proprio supporto per: a) campagne nei posti di lavoro a favore delle iniziative di boicottaggio di Israele e delle aziende internazionali direttamente coinvolte nella violazione dei diritti palestinesi; b) il sostegno a iniziative per prevenire la costruzione e il trasporto di armi dirette a Israele; c) campagne di pressione sul governo britannico affinché interrompa la collaborazione militare con Tel Aviv.

Adcu (App Drivers and Couriers Union), sindacato che si occupa della tutela dei lavoratori della gig economy - in concomitanza con la manifestazione nazionale di solidarietà con la Palestina - ha promosso un log-off di massa tra le 12 e le 2 di pomeriggio per consentire a fattorini e autisti di Uber, Deliveroo e Just Eat di unirsi alla protesta.

Il tema è stato molto sentito da questi lavoratori, molti dei quali vengono da aree del pianeta segnate da guerre e conflitti e pertanto sono stati propensi ad empatizzare con le sofferenze del popolo palestinese e a partecipare a mobilitazioni per la pace e il rispetto dei diritti umani.

Anche i sindacati belgi dei trasporti hanno preso posizione in maniera forte, invitando i lavoratori degli aeroporti a non gestire alcun volo che trasporti materiale militare nella zona del conflitto. Allo stesso modo si sono mossi molti scali portuali quali Genova, Barcellona e Sidney.

Negli Stati Uniti, il sindacato del settore automobilistico - recentemente protagonista di significativi scioperi che hanno scosso il settore a partire da importanti rivendicazioni salariali - si è espresso per il cessate il fuoco.

In Norvegia c’è stato un importante dibattito parlamentare attorno al riconoscimento dello Stato palestinese. Sia LO (Confederazione Norvegese dei Sindacati) sia Fellesforbundet (Federazione Unita dei Sindacati, che rappresenta lavoratrici e lavoratori del settore privato, affiliata a LO) hanno esercitato rilevanti pressioni sul Partito Laburista. Il compromesso raggiunto a larghissima maggioranza parlamentare e su proposta del governo di centro-sinistra, ha indicato una via più mediata, che supporta il riconoscimento unilaterale quando questo sarà «utile per il processo di pace». In questa partita il ruolo dei sindacati è stato importante.

In Italia, la Cgil, così come si legge nell’odg dell’Assemblea Generale Nazionale del 18 ottobre 2023, ha dato subito mandato a tutte le strutture dell’organizzazione a costruire e promuovere iniziative sui territori a favore di un immediato cessate il fuoco. E’ parte integrante di percorsi collettivi che promuovono la ricostruzione di un dialogo di pace e si oppone ad ogni tipo di violenze e massacro. E’ impegnata in una raccolta fondi straordinaria per l’invio di aiuti umanitari alla popolazione di Gaza.

Ma c’è tanto da fare.

Il mondo del lavoro organizzato può fare di più; attraverso pratiche e strumenti diversi può dire la sua contro la guerra, per la pace e per l’autodeterminazione dei popoli. 

Nostro obbiettivo è fermare una guerra che, se prosegue nel mito della vittoria di una delle due parti, come abbiamo visto per l’Ucraina e la Russia, può portare davvero alla catastrofe.

Vi è bisogno di un pacifismo critico e concreto, capace di fare leva su tutte le forze in campo.

E’ difficile, non impossibile. Serve un nuovo protagonismo del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. La Cgil in questo processo deve esserci ed essere promotrice dello smantellamento di quella economia di guerra che affama le classi popolari e arricchisce pochi.

Uniamoci tra lavoratori e lavoratrici, tra generazioni, culture e nazioni per promuovere il dialogo sociale e politico, per porre fine alla guerra e alla sofferenza e salvaguardare i diritti di tutte le persone, presenti e future.

La sicurezza per tutti e tutte richiede che la comunità globale si assuma la responsabilità morale di sostenere i diritti umani di tutte le persone, individuare e attuare soluzioni politiche giuste e rifiutare la forza militare.

La guerra è un attacco ai diritti delle generazioni presenti e future. Lo sviluppo non può avvenire in mezzo alla guerra e la pace non è sostenibile senza giustizia. Dobbiamo dare valore alla vita di tutti equamente.

Per questo chiediamo la fine della guerra a Gaza e in Israele, a partire da un immediato cessate il fuoco umanitario, il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi presi da Hamas, la creazione di corridoi umanitari a Gaza, l’evacuazione immediata dei feriti gravi da Gaza verso strutture dove possano ricevere le cure mediche necessarie, la fine del blocco di Gaza e una rigorosa osservanza del diritto umanitario internazionale e rispetto dei diritti umani di ogni persona a Gaza, in Cisgiordania e in Israele; compreso il diritto di vivere in un ambiente sicuro, libero dal bisogno o dalla paura, con pieno accesso al cibo, all’acqua, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Ci aspettano due date importantissime: il 25 Aprile e il Primo Maggio.

Le nostre parole d’ordine saranno “Pace, Lavoro e giustizia sociale!”.

 

“Il coraggio di navigare in mare aperto”. La relazione introduttiva di Federico Antonelli

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione introduttiva di Federico Antonelli

“Il coraggio di navigare in mare aperto”. La relazione introduttiva di Federico Antonelli

 

Buongiorno compagni e compagne,

ci ritroviamo a Milano a due anni di distanza dal seminario di Perugia del 2022.

Ai nostri lavori oggi partecipano compagne e compagni che provengono da Lombardia, Veneto, Toscana, Campania, Basilicata, Puglia, Sardegna e Umbria. Una rappresentanza grande che ci riempie di orgoglio e ci responsabilizza. Oggi ripeto un concetto già espresso due anni fa, che sta al cuore della nostra azione: il lavoro che Lavoro Società mette in campo in ogni occasione è frutto di un lavoro di squadra, che senza l’impegno collettivo non potrebbe mai realizzarsi.

Ognuno di voi è per me sostegno e pungolo: non cito nessuno ma sentitevi tutti coinvolti nel ringraziamento per la realizzazione di queste due giornate, impegnative e pesanti, ma ricche di soddisfazione oggi che siamo qua, tutti assieme.

Il primo ringraziamento va alla FILCAMS CGIL di Milano, a Marco che ha portato il saluto della categoria. Grazie Marco. Così come un ringraziamento altrettanto sentito va alla Camera del lavoro e a Enzo che ha portato il saluto della mia Camera del Lavoro.

Ai nostri lavori partecipano diverse compagne e diversi compagni che militano nelle altre categorie della nostra confederazione, che a noi fanno riferimento o a noi guardano con simpatia ed interesse. In rappresentanza di tutti ringrazio della partecipazione Leopoldo Tartaglia e Giacinto Botti, rispettivamente responsabile della nostra bella rivista Sinistra Sindacale e il nostro coordinatore nazionale.
La presenza ed il saluto che ci ha portato Massimo Frattini, amico e compagno che in IUF segue il settore degli alberghi e del turismo e che conosciamo tutti bene è per me speciale. Lui offre ogni volta un contributo ai nostri lavori. Voglio ricordarlo: lui per me non è solo un bravo compagno. Grazie Massimo amico mio, di essere qua con noi.

Naturalmente un ringraziamento speciale va come sempre alla Filcams Nazionale , in particolare a Giulia Burgese e alle  compagne e ai compagni del CeMu che ci permettono di organizzare questo nostro appuntamento: Francesca Albonico, che da sempre con il suo lavoro fa funzionare al meglio le nostre iniziative,  Carlotta Chiari e Andrea Procaccino che in questa occasione l’hanno affiancata.
Non l’ho citato fino ad ora, ma ringrazio della sua presenza ai nostri lavori il nostro Segretario generale Fabrizio Russo. Fabrizio, ti ho visto crescere lungo tutto il tuo percorso nella FILCAMS, da giovane funzionario a segretario generale nazionale. E’ un grande onore e piacere averti qua con noi, aspettiamo tutti il tuo contributo ai nostri lavori.

Voglio ringraziare anche i nostri ospiti che, con i loro contributi, ci aiuteranno nella discussione, offrendoci conoscenza e spunti di riflessione: il Dottore Nicola Quandomatteo, il professore Emiliano Brancaccio e Claudio Treves, figura storica della segreteria della FILCAMS, un compagno di grande valore che noi tutti stimiamo e a cui vogliamo anche molto bene.

Chiudo i ringraziamenti iniziali con Andrea Montagni: lo sapete per me Andrea è non solo un compagno con il quale ho lavorato nella struttura nazionale, ma è anche un amico, un fratello maggiore con cui mi confronto, parlo, discuto, faccio grande palestra di pazienza (tanta pazienza) e mi diverto. Questi due giorni sono anche il frutto di questa nostra passione comune per la CGIL, per il sindacato, per le lavoratrici e i lavoratori che rappresentiamo e per la nostra aggregazione programmatica di Lavoro Società.

In questo lungo preambolo di ringraziamenti, spero, mi perdonerete una piccola nota personale: essere oggi su questo palco, il salone Di Vittorio della Camera del lavoro è un’emozione speciale. Milano, la mia città, è sempre nel mio cuore e nelle mie vene, e la Camera del lavoro è un luogo speciale per la città e per la mia vita: è il luogo dove sono cresciuto, ho imparato ad essere un sindacalista e ho imparato ad amare e rispettare la mia organizzazione. Ho imparato molto: ho imparato che il sindacato è il luogo in cui problemi individuali diventano collettivi. Ho imparato a comprendere la dimensione confederale della CGIL, senza la quale diventeremmo un soggetto sociale portatore solo di valori particolari, limitati alla singola realtà aziendale o settoriale. Una visione limitata del lavoro che ci renderebbe più deboli. Grazie a questa camera del lavoro ho avuto la possibilità di lavorare su me stesso crescendo, imparando e studiando. Vivendo esperienze che mi hanno cambiato, dandomi maggiori strumenti di conoscenza e portandomi oggi a scrivere e leggere questa relazione di fronte a voi: non dimentichiamo mai che il sindacato è strumento nelle mani delle lavoratrici e lavoratori per migliorare la loro condizione materiale di vita, ma è anche il luogo dove queste lavoratrici e questi lavoratori possono arricchire la propria cultura, modificare il proprio ruolo, assumere responsabilità. Lo sviluppo della persona in termini collettivi, sociali ed individuali: questo è uno dei nostri obiettivi di base, qua sta il nostro passato, il nostro presente ed il nostro futuro.

In questa camera del lavoro ho anche avuto modo di incontrare un uomo, un sindacalista, che ha fatto la storia della CGIL, della FILCAMS e della Sinistra Sindacale: Bruno Rastelli. Dieci anni fa esatti Bruno ci lasciava, chi lo ha conosciuto ne avverte sia la presenza che l’assenza; chi non lo ha mai incontrato deve sapere che ha perso l’occasione di confrontarsi con un grandissimo dirigente sindacale, dalle caratteristiche rare, sia sul piano umano che sindacale. Vi dico solo che se siamo qua oggi è anche per il suo lavoro e la sua volontà di dare voce a una grande Sinistra Sindacale organizzata in CGIL.

Il mondo è attraversato da un vento di guerra che spira sempre più forte. Noi in questi due giorni abbiamo scelto di partire dalla guerra: il 24 febbraio del 2022 la Russia avviò la propria campagna militare contro l’Ucraina. In questi giorni, a due anni di distanza, la situazione è peggiorata e il conflitto che fin da subito non esitammo a giudicare folle, non accenna a terminare. Intanto in Palestina la situazione è sempre più drammatica e la strage continua con la complicità della comunità internazionale. Il rischio di un conflitto mondiale dalle dimensioni inimmaginabili è concreto. Ieri abbiamo affrontato questi temi. Non voglio aggiungere altro: dico soltanto basta, tacciano le armi, ritorni la parola alla politica, al dialogo. La guerra la pagano sempre e da sempre i popoli, le persone che lavorano, le donne e gli uomini che perdono la propria vita o quella dei propri figli, sull’altare di interessi che non gli appartengono. La guerra è una follia, una catastrofe: dobbiamo partire da questo concetto prima di fare qualunque analisi, perché se non mettiamo al centro dell’azione di governo, dei governi, questo principio allora le armi non smetteranno di urlare, gli inverni saranno sempre più lunghi e freddi per le popolazioni coinvolte e la vita sempre più costosa e difficile per chi le guerre finanzia, senza volerlo, con le proprie tasse e il proprio lavoro.

Due anni fa iniziai la mia relazione citando il numero dei femminicidi e delle morti sul lavoro. Oggi non parlo di numeri perché mi ripeterei. Sono passati due anni ma sembra che il tempo sia trascorso invano e la tragica contabilità resta lì, immutabile testimone delle assurdità e delle contraddizioni del sistema che ci opprimono. Lo sfruttamento della donna, nel lavoro di cura, nel ruolo di madre e lavoratrice, nella subordinazione del ruolo di moglie non è cambiato. Lo sfruttamento del lavoro che subordina al profitto anche il costo della sicurezza continua a uccidere ogni anno nei cantieri e nelle aziende. Non voglio mettere insieme due questioni che hanno declinazioni diverse, ma voglio partire dalla contestazione di una retorica che considero insopportabile e che unisce questi due drammi: né i femminicidi, né le morti bianche sono patologie del sistema capitalista; ne sono solo i frutti amari. Se noi affermiamo che l’uccisione di una donna per mano del proprio compagno sia colpa della follia del singolo, neghiamo la radice culturale e sociale del rapporto tra l’uomo e la donna.

Se noi affermiamo che la morte di una lavoratrice o di un lavoratore sono tragiche fatalità, neghiamo che il sistema economico e produttivo vive di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Non usciremo mai da questa mistificazione, se non saremo capaci di una spinta politica e sociale nuova, diversa, continua e forte. Come è stato in occasione della manifestazione del 25 novembre scorso, quando una moltitudine di donne si sono riversate nelle strade, per ribellarsi al dramma dei femminicidi e alle contraddizioni che il sistema patriarcale ancora determina. Non so se una giornata di lotta sia sufficiente, ma quel giorno c’erano tante ragazze e anche tanti ragazzi: diamogli fiducia e sostegno; sono la migliore speranza per un futuro diverso.  

I diritti sono il metro di valutazione del grado di civiltà che stiamo realizzando e il grado di democrazia e di uguaglianza tra i generi si misura anche dal livello di partecipazione delle donne alla vita pubblica.

 In questi mesi nessuno ha osato mettere in discussione le unioni civili, certo. Il recinto regge, l'apartheid giuridico creato ad hoc per le coppie formate da persone dello stesso sesso a suo modo funziona e fa comodo resti tale, anche alla Destra che fino all’approvazione della legge Cirinnà del 2016 lo combatteva.

Fu proprio Giorgia Meloni in un comizio prima delle elezioni del 2022 a dire ad un contestatore "mi sembra che abbiate già le unioni civili". Fatevele bastare, il sottotesto nemmeno troppo velato. Attenti che potremmo pure ripensarci, l'altrettanto velata minaccia. "E di matrimonio egualitario manco a parlarne finché ci siamo noi!", sembrava dire. I diritti di serie B sono serviti.

E se i diritti civili sono il metro di valutazione del grado di civiltà che stiamo realizzando dobbiamo impegnarci e dire a chi oggi crede ci siano altre priorità, altri temi, anche tra di noi, nella CGIL, che dobbiamo continuare ad essere prima di tutto vigili e aperti nelle nostre lotte, perché nessuno si salva da solo e nessuno può essere lasciato indietro.

E prendiamo il coraggio di dire che anche la nostra organizzazione deve fare molto sul piano della parità di genere e sul rispetto dei diritti: non bastano gli strumenti statutari se poi nel quotidiano dirigenti sindacali trattano le dirigenti con sufficienza, non bastano gli strumenti statutari se capita ancora che un dirigente si possa permettere di apostrofare con parole volgari e violente una compagna, non bastano gli strumenti statutari se non sapremo interpretare nuovamente noi stessi, in un diverso e rinnovato rapporto tra i generi. Non basta scrivere certi principi nel codice etico, regole certe nello Statuto, se poi divengono carta straccia nella pratica quotidiana!

 

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

Il 23 febbraio del 2022, la guerra civile in Ucraina è diventata la guerra tra la NATO e la Russia, combattuta sulla pelle degli ucraini. Quella guerra è ancora in corso e coinvolge sempre più i paesi europei, Italia compresa. A gennaio l'ammiraglio Rob Bauer - uno dei caporioni militari della NATO - ha affermato che il conflitto determinerà il destino del mondo. Ma da ottobre un’altra guerra di bassa intensità si è trasformata in guerra aperta, ma guerra non è parola adatta: è un massacro!

Ieri abbiamo messo al centro della nostra prima giornata la pace “con la Palestina nel cuore”: avete sentito le amare parole di verità. Bambini, donne e uomini di Gaza e Cisgiordania ammazzati, feriti, catturati, umiliati costretti a vivere ogni giorno sotto i razzi, le bombe i fucili e i manganelli dei soldati e dei coloni.

Il popolo palestinese ha diritto all’autodeterminazione e alla Resistenza con qualsiasi mezzo contro l’occupante. Così dice il diritto internazionale, e così ci detta anche la nostra sete di giustizia e di libertà, non solo per noi ma per tutti i popoli del mondo! Agli uomini, le donne di Palestina, ai loro sindacati, ovunque siano nei campi profughi in Libano, a Gaza, nei territori “autogovernati”, nei territori occupati, nella diaspora va il nostro abbraccio fraterno, solidale e di lotta!

La situazione internazionale è sempre più complicata.

La fine del bipolarismo invece di portare, come qualcuno si era illuso, al predominio totale degli Stati Uniti, ha determinato, nel corso di questi trent’anni, una instabilità internazionale piena di pericoli. Si sono scatenate guerre di aggressione da parte degli USA e l’emergere di nuove potenze regionali, che cercano di farsi spazio, ha generato una nuova contrapposizione sistemica tra USA e Cina. Dentro questa crisi politica internazionale ci siamo ancora e tanti paesi – come il nostro – sono nel profondo di una crisi economica che si tramuta in una brutale aggressione di classe nei confronti del lavoro, con un processo di precarizzazione e impoverimento dei salari.

Il trionfo del liberismo politico (negli USA e in Occidente) si è accompagnato inscindibilmente al trionfo del liberismo economico che ha liquidato il capitalismo caritatevole e le politiche keynesiane di redistribuzione. Tutto questo con il concorso delle forze politiche, apparentemente progressiste, europee, statunitensi, Italia compresa. Queste forze hanno dato una veste nuova al capitalismo e al liberismo economico, associato, con visione astuta e raffinata, alla democrazia e alla difesa dei diritti sociali, in un matrimonio impossibile ma ben sponsorizzato. L’Europa unita da speranza di riscatto e di aspirazione alla pace si è trasformata da soggetto protagonista delle politiche di distensione, in uno strumento di penetrazione dei capitali tedeschi e francesi nei paesi dell’ex campo socialista, macchina onnivora di inglobamento di mercati e nazioni, indistinguibile dalla alleanza politico militare della NATO. Non l’Europa che vorremmo: strumento di pace nel segno del manifesto di Ventotene tradito, anche se non tutti ne fummo consapevoli, nel corso della guerra contro la Jugoslavia del 1991 che ha forse segnato il destino attuale dell’Europa.
Nel frattempo cresce la tensione tra le potenze e nuovi focolai di guerra si accendono e quelli già accesi non si spengono. Sotto i nostri occhi il martirio palestinese, l’agonia dell’Ucraina ma l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura in tutti i continenti, dalla Somalia, all’Etiopia, all’Irak, alla Siria.

In Africa, si continua a combattere in Libia, e nei paesi dell’Africa Subsahariana si combatte contro lo Stato islamico, mentre si cerca di allontanare dai paesi i colonialisti francesi; si combatte anche in Nigeria. Si riaccende la guerra in Congo, iniziata nel 1976 e che coinvolge i paesi vicini, sempre fomentata da Francia, Belgio e Stati uniti che si contendono tramite terzi il controllo delle miniere di terre rare, in una guerra che ha già fatto 7 milioni di vittime. Nell’Oceano pacifico, cresce la tensione tra USA e Cina, tensione destinata ad acuirsi qualora le elezioni presidenziali negli Stati uniti d’America siano vinte dai repubblicani.

La tendenza alla guerra è connaturata alla natura e all’evoluzione del sistema economico capitalistico e imperialista. L’unica forza che può impedire la guerra mondiale, imporre il ritorno a politiche di coesistenza pacifica è la mobilitazione internazionale dei popoli per la pace per il riconoscimento dei diritti di ognuno, umani, economici e civili.

Noi che di questa Europa facciamo parte, guardiamo con apprensione a una Italia sempre più coinvolta dopo le guerre di Jugoslavia e di Libia nelle avventure militari della NATO ed ora col ridicolo, ma pericoloso scimmiottamento delle politiche muscolari degli Stati uniti, della Gran Bretagna e della Francia con un governo che invia le navi davanti alle coste palestinesi, nel Mar Rosso e nell’Oceano pacifico al seguito delle avventure di guerra USA.

Di fronte all’instabilità internazionale, alla crisi economica e alla paura crescente per il futuro, al timore per il cambiamento climatico troppe volte occultato dal dibattito politico, tra la gente crescono le spinte dettate dalla paura. La paura fornisce una base di massa e consenso a forze reazionarie, autoritarie, xenofobe, razziste e sessiste. Le prossime elezioni europee potrebbero sancire il predominio delle destre estreme in Europa: uno scenario drammatico che solo qualche anno fa sembrava imprevedibile.

Voglio dire con forza: la politica verso i migranti, non solo verso i rifugiati politici, deve prima di tutto essere umana! I CPR, lager nostrani, vanno chiusi, basta finanziare quelli in Libia e Tunisia, basta costringere chi salva i naufraghi a raggiungere porti lontanissimi sperando che la morte e la paura scoraggino i viaggi via mare, basta costruire muri sulle rotte balcaniche e dell’Europa centrale!

“Aiutiamoli a casa loro”! E’ uno slogan odioso: impegniamoci a rispettarne i diritti e l’umanità quando arrivano tra noi!

Intanto cresce anche l’esigenza insopprimibile dei popoli alla libertà.

Cuba resiste.

Il Venezuela ha superato una crisi durata 2 anni.  La Colombia ha eletto un presidente espressione della classe lavoratrice, dei contadini e delle popolazioni indigene. Il popolo boliviano ha sconfitto un golpe e ripreso il proprio cammino. Anche in Guatemala e in Messico si sono affermate forze democratiche. In Brasile sconfitti i tentativi golpisti di Bolsonaro, Lula e la sinistra sono tornati alla guida del paese. I kurdi di Turchia e Siria continuano a battersi per la pace, la democratizzazione dei loro paesi e continuano la guerra contro lo Stato Islamico. In Birmania la gioventù e le nazionalità oppresse proseguono l’opposizione civile, di massa e politico-militare contro i generali traditori.

In Libano, in Irak, in Sudan, in Iran i movimenti di contestazione dei regimi corrotti e autoritari, la richiesta di democrazia si scontrano con la logica di dominio delle potenze regionali e la prepotenza dei regimi e delle classi dirigenti, ma le idee di rivolta non sono morte e il popolo resiste nelle forme che riesce ad individuare. Negli Stati Uniti, il cuore dell’impero, il movimento operaio e sindacale conosce una nuova stagione di conflitto e di organizzazione, favorito dalla legislazione pro-lavoro imposto dalla sinistra come condizione per appoggiare Biden alle elezioni in cui sconfisse Trump.

Una piccola nota di fiducia anche in Europa, nonostante i venti di guerra al confine orientale, qualcosa si muove. Il movimento sindacale si radicalizza e poderosi scioperi si sono realizzati in tanti paesi europei, in difesa dei salari e dello stato sociale. La Spagna esprime un governo progressista e nel Nord Europa, il movimento operaio mantiene punti di forza anche se incapace di sottrarsi alla morsa dello sciovinismo nazionale e non riesce a sottrarsi dalla spirale della difesa del mondo libero, cioè della adesione al blocco occidentale.

Nella lotta di classe vediamo il terreno di ricostruzione di una nuova unità dei lavoratori europei per quella Europa sociale e solidale che abbiamo sognato e che continuiamo a volere.

LA SITUAZIONE NAZIONALE

L’Italia è governata da un governo apertamente reazionario.  Il governo Meloni è in carica dal mese di ottobre del 2022 ed è il risultato del maggior astensionismo nella storia della Repubblica. L’alleanza di governo ha raccolto il 44% delle preferenze delle elettrici e degli elettori con un dato di affluenza alle urne del 64%. Questo dato non delegittima in nessuna maniera il governo ma ci obbliga ad affrontare una riflessione di carattere politico. E’ quello in carica il governo in cui fascisti e conservatori si sono coalizzati attorno alla figura della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la prima donna che ricopre il ruolo di Primo Ministro nella storia della nostra Repubblica.

La storia insegna che i grandi movimenti di estrema destra hanno preso il potere in Europa, nel corso del 20esimo secolo, anche partendo da coalizioni che assommavano, con formule diverse, destra estrema e conservatori democratici. Questo è successo in Italia, con il colpo di stato accettato supinamente dall’esercito e dalla casa regnante, è successo in Germania, ed è successo, pur passando attraverso una guerra civile sanguinosa, in Spagna. Certo le condizioni politiche generali oggi non fanno presagire che la torsione autoritaria assolutista e violenta di questi governi sia ripetibile nelle medesime forme: ma la nostra attenzione e il nostro impegno devono essere massimi, perché il fascismo, come ogni ideologia opportunista, è capace di trasformarsi e operare con i medesimi scopi e obiettivi pur senza ripetere gli stessi gesti, azioni ed errori. Lo dimostrano gli atti di governo approvati finora.

Questo governo sta mettendo in discussione ogni traccia di progresso presente nella nostra società. I diritti civili, i diritti delle donne, le politiche migratorie, le politiche del lavoro, l’assenza di una strategia per affrontare la crisi climatica e la transizione ecologica e l’adesione alla cultura bellicista, che l’alleanza atlantica sta praticando, sono tutti argomenti su cui si sta scatenando la furia reazionaria di questo.
La riforma costituzionale di stampo presidenzialista e l’autonomia differenziata rispondono a una strategia volta a rafforzare il ruolo dirigista del governo, che indebolisce il sistema dei bilanciamenti democratici presenti nel sistema costituzionale, che ricordiamolo sempre, era stato concepito proprio per evitare il rischio di derive antidemocratiche, presenti nel nostro paese. Non è sorprendente che una tale riforma, tesa a distruggere l’assetto costituzionale, sia portata avanti da queste forze politiche che affondano la propria radice culturale e storica nella destra fascista del MSI: forza politica che non è mai stato ricompresa nell’arco costituzionale.

Aver abolito il reddito di cittadinanza e aver definito il ministero all’istruzione come “ministero del merito” sono provvedimenti che rispondono ad una idea punitiva, sul piano culturale, ancor prima che normativo, della stratificazione sociale e di classe. In queste azioni è chiara l’idea che se non ottieni successo, o sei in difficoltà, è solo colpa tua e la politica, il governo, la parte presunta sana della società, non si può far carico di te.

La reintroduzione dei voucher, la riforma delle pensioni, le politiche fiscali che tendono a un progressivo appiattimento delle aliquote accompagnate alla rinnovata retorica del contenimento dei costi pubblici (che diventa pratica di governo che tocca gli interessi delle classi lavoratrici), sono il segnale di scelte economiche che penalizzano le fasce deboli della popolazione e segnano un ulteriore punto a favore dello smantellamento del sistema di welfare state su cui si sono basate le politiche redistributive del dopoguerra. Il welfare state pubblico non è passato di moda, non è strumento vecchio di cui è bene liberarsi perché costa troppo. Il welfare state pubblico assicura salute, istruzione, formazione, opportunità a tutti ed è il risultato del patto sociale su cui di fonda il modello di progressività fiscale previsto dalla nostra Costituzione. Attraverso il suo smantellamento si distrugge l’idea di fiscalità progressiva e redistributiva e si inseriscono ideali punitivi e penalizzanti “per chi non ce la fa”. Le classi dominanti vincono nel conflitto sociale, quando costringono le classi subalterne e pensare come loro. E il successo della destra è stato forte perché si è basato anche sull’inganno della destra sociale, la combinazione tra la falsa rappresentazione di interessi popolari e l’identificazione del nemico nel migrante, nel disoccupato e nel povero. Un inganno drammatico perché confonde il nemico con l’alleato, gioca sulla paura e non sulla speranza di un futuro diverso e identifica il tuo avversario all’interno della tua stessa classe sociale, confondendo e invertendo il rapporto tra sfruttati e sfruttatori. Insomma questa destra è funzionale al governo delle diseguaglianze, ampliate volutamente nel perverso gioco politico per cui il suo consenso proviene dalle classi che poi penalizza.

L’elezione di questo governo ha realizzato e compiuto un percorso di cui anche il centrosinistra deve sentirsi responsabile: perché il modello economico europeo, basato sull’equilibrio di bilancio e il patto di stabilità, con conseguente contenimento della spesa pubblica e riduzione degli investimenti in welfare, è frutto di scelte e progetti strategici di cui il centro sinistra è stato protagonista. Perché le radici della riforma dell’autonomia differenziata trova la propria via privilegiata nella riforma del titolo quinto della costituzione voluto anche dal centrosinistra. Non è una colpevolizzazione strumentale, deve essere una riflessione utile a cambiare il proprio approccio alle grandi questioni politiche. Io credo che per queste ragioni la CGIL abbia fatto bene a dichiarare lo sciopero generale di dicembre, ad organizzare la manifestazione di ottobre, e continui a proporsi come forza sindacale radicale nella sua proposta, alternativa a quella di una destra convinta del proprio progetto e di una sinistra che non sa più rappresentare i propri riferimenti culturali e sociali: quelli del lavoro e quelli dell’uguaglianza.
La CGIL deve continuare a offrire un ideale alternativo di società, praticando autonomia dalla politica, pur senza esserne indifferente, come ci diciamo spesso fra di noi. Un percorso egualitario, fondato sulla forza delle ragioni scritte nella costituzione, a partire dall’articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Sul piano del merito sindacale la CGIL ha dichiarato lo sciopero generale contro le politiche economiche del governo ma anche perché oggi la contrattazione non riesce a raccogliere e risolvere le istanze delle lavoratrici e dei lavoratori. E’ un fatto che dobbiamo analizzare con attenzione sapendo che non ovunque e in ogni settore la situazione è simile. Quel che è certo è che la centralità del contratto nazionale, quale regolatore dei rapporti di lavoro, è oggi messo fortemente in discussione.
Il progetto alternativo di società su cui si impegna quotidianamente la CGIL allora deve dotarsi di strumenti indispensabili per restituire forza all’azione della contrattazione: la carta dei diritti era, e a mio parere resta, l’elaborazione migliore che siamo stati capaci di offrire al paese in questa ottica. Purtroppo sappiamo che giace nei cassetti del parlamento senza che nessuno voglia parlarne (a cominciare da noi, forse ce ne siamo scordati troppo presto). Oltre alla carta dei diritti, oggi abbiamo bisogno di rilanciare alcuni temi ed obiettivi: la legge sulla rappresentanza, il salario minimo e meccanismi di indicizzazione dei salari definiti anche per via contrattuale, la condizionalità nella aggiudicazione degli appalti pubblici al rispetto dei contratti nazionali e delle normative previdenziali e su salute e sicurezza. La legge sulla rappresentanza è indispensabile oggi, anche a fronte del metodo del governo che mette tutti i soggetti di rappresentanza sociale sullo stesso piano, senza volerne riconoscere storia e profondità rappresentativa nella società.

Il salario minimo e l’indicizzazione dei salari, associati alla legge sulla rappresentanza potranno proteggere il potere di acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori di fronte alle oscillazioni inflattive e alla debolezza contrattuale di comparti produttivi, come quelli che noi in FILCAMS conosciamo e rappresentiamo a partire da vigilanza, servizi fiduciari e imprese di pulimento o multiservizi, caratterizzate dalla frammentazione produttiva.

Il sistema pubblico è il più grande produttore di precarietà lavorativa: attraverso gli appalti pubblici si rendono deboli e precari milioni di lavoratori e lavoratrici. Attraverso il quadro normativo, diverso da quello imposto con il codice degli appalti, si dovrebbero imporre il rispetto delle normative su salute e sicurezza, la certezza della regolarità contributiva (già parzialmente in atto) e l’applicazione dei contratti sottoscritti dalle OO.SS. maggiormente rappresentative. Il tutto per quegli appalti considerati necessari perché la nostra prima battaglia e primo obiettivo dovrà essere quello della reinternalizzazione dei servizi.

Infine, la lotta alla precarietà: senza certezze non c’è futuro. Non possiamo continuare ad avere una generazione che invecchia senza diritti, certezze e stabilità. Questo è un tema su cui dobbiamo operare con determinazione.

Ma per poter realizzare i nostri obiettivi è bene che lavoriamo per rilanciare la nostra azione sociale che però deve partire da una riflessione profonda sulla natura della nostra organizzazione. Io lo ricordo bene cosa emerse nel corso del seminario del 2018 a Rimini: i delegati espressero chiaramente la volontà di sentirsi parte attiva delle decisioni della CGIL. In quella occasione diversi di loro raccontarono la delusione che vivevano nel rapportarsi con una organizzazione che scriveva documenti bellissimi, esprimeva posizioni condivisibili, lanciava slogan coinvolgenti, ma che poi non sempre faceva vivere tra le delegate e i delegati e tra le lavoratrici e i lavoratori. Le loro parole segnavano la distanza tra ciò che la CGIL dichiara di essere e fare e ciò che viene percepito e praticato. Una richiesta di attenzione che poneva al centro la costruzione non del consenso (l’ossessione della moderna politica) ma della partecipazione: due strade diverse che creano cittadinanza attiva e progresso (la partecipazione) o la cittadinanza passiva e la regressione (il solo consenso). Se la nostra organizzazione non ragiona in termini di partecipazione è destinata a morire. Per questi motivi noi abbiamo più volte contestato la prassi delle riunioni tra segretari generali. La nostra critica non è il capriccio di chi si sente escluso dalla discussione, ma la presa d’atto, consapevole, che nella nostra amata CGIL si sta attivando una prassi negativa che distingue gli ambiti decisionali formali da quelli sostanziali, rendendo esplicita solo una parte della discussione. La democrazia è fatta di forma (le regole e lo statuto che l’organizzazione ha definito) ma anche di sostanza: la sostanza è come si intendono i rapporti tra le istanze statutarie, tra le strutture dell’organizzazione e tra queste due e l’insieme delle delegate e degli iscritti. Senza una ridefinizione aperta di questi processi la nostra organizzazione è destinata ad inaridire, a non essere, perché la CGIL o è collettiva o non è.

Nel quadro confederale è necessario anche affrontare il tema dei rapporti unitari: nessuno è così ingenuo da pensare che la dichiarazione di sciopero generale fatta dalle sole CGIL e UIL sia frutto esclusivo del giudizio sulla manovra economica del governo. In gioco ci sono anche i rapporti sociali del futuro e il modello di relazioni sindacali su cui impostarlo. La scelta della CISL di affiancare il governo senza accennare alla minima forma di opposizione sociale non nasce solo da valutazioni politiche che possono sfociare nell’opportunità di agganciarsi al treno del consenso di centrodestra. La distanza tra noi e la CISL nasce primariamente nel modello di relazioni sociali che vogliamo strutturare e praticare. Anche qua si torna alla costituzione e all’architettura istituzionale che i padri costituenti avevano in mente. Il sindacato è soggetto di rappresentanza sociale che si assume il compito di organizzare le masse lavoratrici, diventando anche parte dei contrappesi democratici nel sistema. Non dimentichiamo mai lo slogan che accompagnò l’approvazione dello statuto dei lavoratori del 1970: la costituzione entra in fabbrica. Oggi la CISL può diventare lo strumento di collegamento sociale con il mondo del lavoro nel nuovo stato che la destra ha in mente. Un modello corporativo, in cui si fa conciliazione economica e non contrapposizione tra soggetti preposti alla rappresentanza di interessi diversi. Nel modello di conciliazione sociale proposto dalla CISL i principi di democrazia economica si realizzano grazie alla bilateralità, al riconoscimento istituzionale del ruolo sindacale, senza la certificazione del numero di lavoratrici e lavoratori iscritti al sindacato, agli strumenti politici della presenza di rappresentanti sindacali nei consigli di amministrazione e attraverso la delega alla gestione di una serie di servizi quali formazione, sanità integrativa e previdenza sociale. Un modello mutualistico di welfare su cui di fatto il sindacato rinuncia alla propria missione di organizzatrice delle masse. Qua guardate non pongo un tema di onestà intellettuale o tradimento della classe operaia e impiegatizia, pongo un tema di carattere politico diverso: quale modello vogliamo praticare. Lo dico senza nascondermi: nel modello che la CISL ha in mente noi non ne siamo completamente esclusi. Pensiamo agli enti bilaterali, pensiamo al nostro ruolo nei patronati, pensiamo a come le quote di assistenza contrattuale, che vengono erogate ai sindacati firmatari il contratto nazionale, sono fonte di finanziamento anche della nostra organizzazione. Ma se la CGIL è consapevole che questi strumenti sono importanti, sa anche che senza il ruolo di guida e organizzazione del conflitto sociale siamo destinati a cambiare completamente faccia e ruolo, peggiorando in modo definitivo e deleterio l’equilibrio tra servizi e contrattazione che fino ad oggi ha tenuto. Probabilmente giornate come quelle odierne non avrebbero più senso e il ruolo che le organizzazioni sindacali assumerebbero sarebbe quello dettato dall’agenda del governo, delle compatibilità economiche e del completo assoggettamento agli interessi prevalenti delle classi dominanti: alla faccia della democrazia economica. Su questo dovremmo anche essere coraggiosi, noi come sinistra sindacale prima degli altri, ad imporre una riflessione sulla struttura organizzativa del sindacato confederale, tutto.

Il ruolo di rappresentanza di interessi e di opposizione sociale ci obbliga anche a ragionare sugli strumenti di lotta che agiamo nella pratica. Gli ultimi scioperi generali sono sembrati la ripetizione stanca di un rito che non trova più risposte adeguate tra le lavoratrici e i lavoratori. Ma come fare allora? Io resto dell’idea che la pratica quotidiana, fatta di presenza, discussione e partecipazione possa funzionare ancora e rimettere in movimento la macchina della lotta. Ma perché funzioni è indispensabile non parlare soltanto ma saper creare coinvolgimento: ritorno al seminario di Rimini e a ciò che dissero i delegati. O si ricrea la percezione che il sindacato, noi che ne siamo parte dirigente, è fatto dalle lavoratrici e i lavoratori o non otterremo risultati reali e gli strumenti della lotta, dello sciopero si indeboliranno sempre più.

E’ necessario dare continuità alla trasmissione delle informazioni, ma soprattutto bisogna ascoltare ciò che proviene dalle nostre delegate e dai nostri delegati, senza farsi travolgere dal dibattito, ma guidando le discussioni e dando prospettiva alla voce di chi rappresentiamo. Abbiamo svolto questo ruolo per tutto il dopoguerra; oggi, anche se cambiano gli strumenti di comunicazione, non cambiano i bisogni comunicativi: sentirsi ascoltati e percepire attenzione alle proprie necessità.

Nella discussione sugli strumenti di azione sindacale si è imposta in queste settimane anche l’opportunità, per la CGIL, di avviare una campagna referendaria. Lavoro, fisco e riforme costituzionali tra i temi su cui si vorrebbero promuovere una serie di referendum e proposte di legge di iniziativa popolare. Noi pensiamo che lo strumento del referendum, in questo momento, non sia utile a rilanciare la nostra presenza nel mondo del lavoro e nella società. La prossima settimana l’assemblea generale della CGIL discuterà di questo. Noi ascolteremo e proporremo la nostra riflessione, come abbiamo sempre fatto. Decideremo sulla base della proposta di azione complessiva ma una valutazione sul metodo oggi ritengo doveroso farla: una scelta strategica di tale portata non può essere ridotta a due assemblee generali nazionali, ma avrebbe richiesto tempi maggiori. Tempi indispensabili non per volontà dilatoria e burocratica, ma perché le valutazioni avrebbero dovuto essere condivise da tutta l’organizzazione nella sua articolazione, confederale e di categoria, nazionale, regionale e provinciale. Se si dichiara di voler costruire partecipazione il primo soggetto che deve sentirsi coinvolto è il corpo attivo della CGIL, fatto da delegati, funzionari e segreterie, nessuno escluso.

 

La FILCAMS

La FILCAMS è stata protagonista in questi mesi di una grande mobilitazione che è sfociata nello sciopero e nelle manifestazioni del mese di dicembre. Una iniziativa che è durata diversi mesi, iniziata a maggio a Firenze e che oggi non possiamo definire ancora conclusa. Questa lotta ha visto un successo rilevante, tra le lavoratrici e i lavoratori dei nostri settori, grazie a tre elementi determinanti.

Chiarezza negli obiettivi: il rinnovo dei contratti nazionali a fronte dei ritardi accumulati e della spinta inflattiva era e resta un obiettivo chiaro, condivisibile, vissuto e partecipato dalle persone.

La preparazione alla mobilitazione e il percorso che hanno portato allo sciopero: non ci sono stati momenti di tentennamento nel percorso che la categoria ha proposto alle lavoratrici e ai lavoratori. Mai è stato fatto un passo indietro tattico, magari nel timore di costruire aspettative elevate. Mesi di mobilitazione con iniziative diffuse, campagne di assemblee e momenti aggregativi. Il tutto coinvolgendo i diversi livelli dell’organizzazione, dalle segreterie generali fino a chi lavora in azienda, iscritto o meno, alle organizzazioni sindacali. In questo percorso aver mantenuto un profilo unitario con FISASCAT e UILTUCS è risultato determinante.

Il rapporto con la confederazione: il rapporto con la confederazione, e con le mobilitazioni confederali ci ha permesso la costruzione di alleanze forti. Anche la vivace caratterizzazione della nostra presenza alle diverse iniziative della confederazione ha dato carattere generale alle vertenze specifiche dei nostri settori.

Ora però arriva la parte più complessa. Dopo il grande risultato dello sciopero dovremo essere capaci di portare i risultati negoziali attesi e dovremo essere capaci di consolidare la forte identità costruita in questi mesi. Dovremo essere capaci, in primo luogo, di mantenere aperto il dialogo costante con lavoratrici e lavoratori a cui dobbiamo ogni aggiornamento possibile in tempo reale, per non disperdere la partecipazione creata.

Ma per noi la vita non è facile e dovremo mantenere alto il livello della mobilitazione svolgendo un lavoro enorme: ricordiamolo, noi rappresentiamo alcuni dei settori più deboli del mondo del lavoro e della filiera produttiva. La grande distribuzione, privata o cooperativa, il mondo dei servizi come imprese di pulizie, mense, vigilanza, gli alberghi e il turismo in genere e poi studi professionali, farmacie, parrucchieri ed estetisti. Sicuramente ne dimentico qualcuno; i nostri sono tutti settori in cui la frammentazione produttiva condiziona la nostra pratica sindacale e la nostra volontà di ricomposizione delle politiche contrattuali. Dobbiamo continuare a essere determinati e non mollare la presa, altrimenti perderemo il legame e riprodurremmo una debolezza perdente.

A questo elemento strutturale bisogna aggiungere la valutazione della natura produttiva dei nostri settori, costituita principalmente da aziende che producono servizi senza averne il controllo del valore, determinato da chi quel servizio compra e sulle cui tariffe opera una fortissima pressione concorrenziale. Settori in cui avvertiamo anche la mancanza di aziende leader che guidino il mercato (non sempre nel bene sia chiaro) e determinino le politiche di comparto. Manca omogeneità e le stesse imprese vivono in modo disorganico la propria funzione, senza politiche imprenditoriali condivise, strategie competitive o scelte strategiche produttive per il futuro. In questa condizione il solo elemento economico di concorrenza è rappresentato dei costi di cui, come sempre, il lavoro rappresenta la voce utile a produrre profitto.

E’ indispensabile approfondire questa analisi altrimenti non usciremo da questa situazione di debolezza. I nostri contratti, anche a causa di queste condizioni, determinano elementi di concorrenza economica tra aziende: se pensiamo al contratto dei multiservizi o quello della vigilanza con i servizi fiduciari, di cui tanto si parla e si è parlato, capiamo che è facile per le imprese inserirsi e sfruttare una condizione favorevole in modo improprio ma di difficile contrasto.  

Oggi per esempio la FILCAMS ha appena concluso la revisione delle tabelle retributive, (grazie alla clausola di revisione economica degli aumenti voluta da noi) del contratto della vigilanza; contratto in cui grazie anche all’intervento della magistratura si è potuto porre un argine, pur parziale, alla deriva salariale. Ma non ne possiamo ascrivere solo una responsabilità politica alla categoria: sono le condizioni che determinano il risultato di un contratto, se ce ne ricordiamo possiamo ragionare per poter porre in futuro i correttivi a questa dinamica.

Correttivi che devono partire dagli strumenti che si offrono alla contrattazione per essere agita.

Li ho citati parlando delle politiche confederali, li riassumo per comodità di ragionamento: legge sulla rappresentanza, salario minimo e indicizzazione degli aumenti salariali, condizionalità nella concessione degli appalti. La sovrapposizione di argomenti dimostra quanto è indispensabile per la FILCAMS CGIL aprire il proprio orizzonte politico. La sovrapposizione di argomenti dimostra quanto è risultato fondamentale il rapporto con la confederazione nell’azione di mobilitazione. Noi siamo la rappresentazione plastica di come politica generale, conflitto economico tra capitale e lavoro, frammentazione sociale sulla quale operare un lavoro di ricomposizione di classe siano gli ingredienti fondamentali per poter modificare la situazione attuale. In questo momento scegliere percorsi esclusivamente corporativi o aziendali (pur a fronte di qualche possibile successo locale o aziendale) risulterebbe perdente.
Noi però dobbiamo impegnarci e praticare alcune coerenze: la più rilevante rimane quella della rappresentanza.

Se le condizioni organizzative delle imprese del terziario sono articolate e frammentate, noi abbiamo un dovere: tentare di ridurre gli effetti di questa frammentazione. Come possiamo farlo se non attraverso lo strumento della rappresentanza: è innegabile il fatto che nei comparti della FILCAMS, e nei nostri territori, si preferisce utilizzare lo strumento delle rappresentanze sindacali aziendali invece delle rappresentanze sindacali unitarie. Le elezioni delle RSU sono faticose, a volte poco praticabili non lo nego, e limitano l’autorità della struttura sindacale. Sia chiaro: le RSA sono una forma della rappresentanza legittima che dobbiamo tutelare. Ma non possiamo sfuggire al processo di rafforzamento della nostra capacità di rappresentanza limitandoci a praticare la sola opzione della nomina delle RSA. La partecipazione si organizza e si determina anche grazie ai meccanismi sindacali per cui il delegato riprende il proprio ruolo centrale nella vita dell’organizzazione. Nel rapporto tra categorie e nella discussione tra le stesse, possiamo porci la domanda se la maggior forza politica delle categorie industrialiste sia data, oltre che dalla struttura delle imprese e dalla ricchezza del settore, anche dalla forma della rappresentanza che ci si è dati? Se non ci proviamo non ci riusciremo mai, e continueremo ad avere una base di rappresentanza nominata, dipendente dall’organizzazione e incapace di crescere per spingere sulle politiche sindacali e contrattuali.

In questa relazione ho scelto di non entrare nel dettaglio delle vertenze di categoria o aziendali. Io credo e auspico che gli interventi dei delegati raccontino la situazione nelle aziende e poi c’è Fabrizio che nei suoi ragionamenti se vorrà potrà darci anche un orientamento su ciò che sta accadendo.

 

LAVORO E SOCIETA’ NELLA CGIL E NELLA FILCAMS

La CGIL del XXI° secolo ha bisogno più che mai - coerentemente con le ragioni ideali, politiche e sociali che ne hanno determinato la storia ultracentenaria e il ruolo di protagonista nella nascita e nel rafforzamento della Repubblica nata dalla Resistenza - di una sinistra sindacale confederale che non sia semplicemente la custode della memoria, ma che riaffermi la validità dell’economia politica e della lotta di classe come strumenti teorici per l’azione, l’abolizione dello sfruttamento degli esseri umani tra loro, l’unità di classe del mondo del lavoro di ieri e di oggi, senza alcuna distinzione di genere, di etnia o religione, come essenza della confederalità, come prospettiva dell’intero movimento sindacale.

Queste parole sono tratte dal documento costitutivo della nostra aggregazione, presentato nell’assemblea generale della CGIL di circa un anno fa. In queste parole ci sono le nostre basi.

In quel documento riaffermammo le ragioni del sostegno al documento “il lavoro crea il futuro” primo firmatario il nostro segretario generale Maurizio Landini.
Nel preparare questa relazione ho riletto ciò che scrissi due anni fa per il seminario di Perugia: vi ho ritrovato molte delle questioni citate nel documento.
Allora come oggi eravamo reduci dallo sciopero generale indetto con la sola UIL. Allora eravamo alle porte del congresso, oggi siamo al bilancio di quel congresso.
Allora come oggi eravamo nel pieno della riflessione su ciò che siamo, come area, e su come lavorare per il nostro futuro.

La nostra area resta un luogo privilegiato di militanza e discussione nella CGIL: lo dico con grande convinzione. Senza una sinistra sindacale organizzata la nostra confederazione e le nostre categorie sarebbero peggiori. Perché nel pluralismo delle idee che siamo capaci di sostenere esiste la possibilità per segretarie e segretari, funzionarie e funzionari, delegate e delegati di praticare la discussione, il dibattito, fare palestra di pensiero critico che significa, nella nostra impostazione, gettare le basi per costruire progetti migliori portando valore e merito. Non contrapposizione, ma sostegno critico alla linea per poterla praticare con coerenza e migliorarla: come diciamo nel nostro documento: “un collettivo di pensiero critico, di proposta e di impegno, non per distinguerci ma per contribuire al rinnovamento dell’organizzazione, alla sua crescita e all’insediamento nei luoghi di lavoro e nella società a ogni livello. “

Insomma, la nostra scelta di sostegno alla linea della CGIL resta confermata nella sua essenza: noi crediamo fino in fondo al nostro ruolo nella società e nel suo sviluppo operativo, contrattuale e politico. Ma questa scelta non può e non deve essere una gabbia in cui rinchiudersi.

Praticare pensiero critico significa anche assumere posizioni scomode e faticose alle volte. Non dobbiamo temere il confronto: siamo una aggregazione programmatica e abbiamo il diritto e il dovere di esercitare autonomia di giudizio e libertà di posizionamento.
Se ci sentiamo nelle condizioni di fare questo allora potremo anche essere coraggiosi e aprirci, navigando in mare aperto, come amiamo dire, anche per ridefinire la nostra dimensione attuale di sinistra sindacale.

Aprirci può apparire uno slogan, una parola vuota e senza grande senso, ma o noi ci apriamo a tutti coloro nella CGIL che vogliono nutrirsi di consapevolezza (e di lotta) di classe, di pace come valore supremo e di giustizia sociale come sua declinazione indispensabile, di partecipazione attiva delle delegate e dei delegati, di contrattazione come epicentro della nostra azione sindacale e di confederalità come pietra portante su cui svilupparla, di parità di genere effettiva, del diritto di ognuno a vivere nella dimensione personale che più ama, nella difficile ma non impossibile unione tra libertà e giustizia sociale (o ci apriamo a chi crede come noi che un alternativa sia un contributo e un valore per la CGIL) o moriremo.

La nostra azione e il nostro radicamento vivono una crisi che non voglio tacere: non è semplice praticare senso critico e al tempo stesso sostenere la linea dell’organizzazione. Bisogna trovare il giusto equilibrio per non restare schiacciati tra l’idea di unità che ci sostiene e la nostra voglia e capacità di riflessione e autonomia di analisi. A volte questa scelta diventa difficilmente comprensibile e perdiamo forza, vigore: non nella nostra volontà di agire, ma nella visibilità del nostro contributo al dibattito. Noi, inoltre, siamo maggioranza senza per questo essere considerati tali: i dirigenti che a Lavoro Società fanno riferimento arrivano molto faticosamente a ricoprire ruoli di direzione politica. Ogni singola postazione e ogni singolo spazio di militanza è frutto di discussioni serrate e a volte demotivanti.

Non è giusto, non lo consideriamo giusto perché o la nostra lealtà culturale e la nostra fedeltà all’organizzazione trovano rispetto e considerazione oppure c’è un problema grande. Noi non facemmo la scelta maggioritaria per opportunismo: lo siamo per convinzione e perché ciò che ci divideva in passato, a partire dalla politica dei redditi del 1993, è oggi superato dalla storia. Per questo noi continuiamo a offrire la nostra disponibilità a ricoprire un incarico di direzione politica nella categoria nazionale, pensiamo di meritarlo, pensiamo di poter offrire compagne e compagni dalle capacità importanti, oggi, e in prospettiva.

Due anni fa, nella mia relazione, parlavo di testimone, oggi questo testimone è ancora più pesante. Lo dico ai giovani ed alle giovani dirigenti: metteteci in discussione, in difficoltà. Fateci sentire superati. Venite da noi a spiegarci come funziona il mondo oggi. Non temete di essere protagonisti: io ho imparato tanto da chi metteva in crisi il gruppo dirigente. Così siamo cresciuti, così siamo diventati grandi: forse abbiamo smesso di crescere quando non è più stata messa in discussione la gerarchia, ovunque e in qualunque ambito dell’organizzazione. Andrea ci diceva sempre di studiare per diventare rossi ed esperti. Io vi dico, studiate perché voi dovrete essere più bravi di noi nell’essere rossi ed esperti. Io da coordinatore della nostra aggregazione lavoro per questo: creare le condizioni perché presto una giovane o un giovane mi affianchino e poi mi sostituiscano; solo così sentirò di aver svolto il mio compito nella CGIL e in Lavoro Società.

Come in ogni relazione sono molte le cose che mancano o che ognuno di noi vorrebbe aggiungere o vorrebbe enfatizzare: sono sicuro la discussione saprà colmare questo vuoto perché noi prima di ogni altra cosa siamo una grande intelligenza collettiva.

Buon lavoro e grazie della vostra pazienza e ascolto.