L'estate referendaria - di Riccardo Chiari

Le firme questa volta non sarebbero necessarie, la campagna per il referendum costituzionale del prossimo autunno è partita comunque. Da entrambe le parti. La mobilitazione dei sostenitori del “Sì” e del “No” serve infatti a mobilitare l’elettorato, a dare un significato popolare alla consultazione. A riprova, a fine giugno al Nazareno è scattato l’allarme: nei piani del Pd, il rompete le righe prima delle vacanze doveva scoccare dopo aver raccolto 500mila firme a sostegno del “Sì”. Invece in quei giorni ne mancavano quasi la metà.

Di qui la richiesta di darsi da fare agli altri sostenitori ufficiali della riforma, dall’Ala di Denis Verdini all’Area popolare (Ncd) di Angelino Alfano. Ma soprattutto dentro il partitone tricolore, nei suoi gangli periferici e nei territori dove il Pd continua a essere visto dagli over ‘60 come l’erede del gran partito di togliattiana memoria. O, a scelta, di degasperiana memoria.

Effetto collaterale della raccolta di firme all’interno del Pd è l’appello all’unità. “Si può essere uniti nella diversità – affermano per una volta ecumenici i proconsoli renziani - perché per vincere non basta essere uniti ma se non siamo uniti si perde”.
Conclusione che vede d’accordo anche chi non è renziano ma pensa che a sinistra del Pd non ci sia futuro.

Ad esempio il presidente toscano Enrico Rossi, che sull’argomento offre parole chiare: “Sono d’accordo che si discuta sul referendum, ma il Pd ha già votato per sei volte unitariamente la riforma costituzionale”.
Quindi le firme vanno raccolte, punto e basta.

Il problema è che alla raccolta delle firme vanno accompagnati anche dei contenuti. In proposito non è stata una gran trovata titolare sull’Unità che ci sono tante associazioni a favore della riforma costituzionale. I nomi? Confindustria, Cna, Coldiretti e Cia. Tutte per il “Sì”. Anche tutte piuttosto lontane, chi più chi meno, dall’iconografia del simpatizzante politico di un partito che pure resta parte della famiglia dei socialisti (e democratici) europei.

Quanto al tentativo di pura marca renziana di accreditare il referendum come un passaggio chiave verso il “cambiamento” (parola magica) del paese, valgono le impeccabili riflessioni di Stefano Rodotà: “Poiché un altro dei luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla benemerita categoria degli innovatori.

È indispensabile individuare i criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con libertà e democrazia.
Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore”.


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