Lavoro dipendente, lavoro "autonomo": la sfida universale dei diritti - di Andrea Montagni

La Filcams è una categoria di frontiera sulla linea ideale di demarcazione tra lavoro subordinato dipendente e lavoro “autonomo” subordinato. Non a caso i rapporti con NIDiL sono sempre stati stretti e molti accordi di emersione e regolarizzazione portano la firma congiunta delle due categorie.

Dal nostro punto di vista, tutti coloro che non sono proprietari dei propri mezzi di produzione e che non determinano la loro prestazione lavorativa sono riconducibili nella sfera del rapporto di lavoro dipendente.

Nella mia esperienza sindacale mi sono confrontato più volte con queste realtà nell’ambito della formazione professionale, della distribuzione di materiale pubblicitario, della rilevazione dati. Non ho il minimo dubbio: sono tutte attività nelle quali la natura subordinata del rapporto di lavoro “esige” il riconoscimento giuridico e contrattuale del lavoro dipendente.
La bussola che ha orientato fino ad oggi la nostra attività contrattuale è stata quella di definire tutti i rapporti di lavoro riconducibili a lavoro dipendente, appunto come rapporti di lavoro dipendente. “Lavoro dipendente” vuol dire un contratto collettivo nazionale cui fare riferimento, per orario di lavoro, come misura della prestazione, per il salario per qualifica e livello, malattia, previdenza, previdenza integrativa e assistenza sanitaria integrativa.

Tuttavia, il nostro approccio lineare merita un approfondimento.
Ci sono lavoratori che vivono l’autonomia della loro prestazione lavorativa come conquista di libertà, anche nel lavoro “povero”, che rivendicano il diritto di autodeterminare la quantità e la qualità della loro prestazione, attraverso la personale decisione del tempo necessario a realizzarla; e che vivono l’orario di lavoro e il rapporto gerarchico nella catena del lavoro come una camicia di forza.

La mia convinzione più profonda è che sia un caso palese di falsa coscienza di sé, ma questo non significa che possiamo ignorare il loro punto di vista e neppure escludere che per una parte di essi - da esaminare “caso per caso” - la natura della prestazione lavorativa stessa comporti differenze profonde.

Con la “Carta dei diritti universali del lavoro” la CGIL ha fatto un salto di qualità nella propria riflessione. Credo che la nostra attività contrattuale – di categoria di frontiera, come dicevo in premessa – abbia contribuito, e parecchio a questo nuovo approccio.

“Contro” le corporazioni e gli ordini professionali che sacrificano le nuove generazioni di lavoratori tagliandoli fuori dalle garanzie sul lavoro, contro il tentativo di utilizzare il lavoro autonomo subordinato (i contratti di collaborazione, le partite IVA, le associature, ecc.), dobbiamo sostenere le battaglie generali per l’estensione del diritto alla maternità, alla malattia e per la previdenza. Abbiamo indicato la strada degli accordi collettivi per garantire un compenso equo e proporzionato. Dobbiamo integrarli in un sistema mutualistico e solidale che estenda anche ad essi la sanità e la previdenza integrative per sottrarli al ricatto delle basse retribuzioni e della mancanza di tutele e diritti.

Dobbiamo aprire le nostre organizzazioni di base a questi lavoratori - come fece la CGIL nel dopoguerra unendo nello stesso sindacato braccianti e mezzadri -; dobbiamo integrarli in un sistema mutualistico e solidale che estenda anche ad essi la sanità e la previdenza integrative per sottrarli al ricatto delle basse retribuzioni e della mancanza di tutele e diritti.


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