Ikea, la smemorata di Collegno. Sciopero nazionale per l'integrativo - di Frida Nacinovich

Pensi a Ikea e immagini clienti in fila, come all’entrata di un moderno paese dei balocchi. Negli enormi spazi vendita della multinazionale svedese si può trovare di tutto, una volta si sarebbe detto “dall’ago all’elefante”. C’è chi va per bersi un caffé, poi esce con una libreria “Billy”, oppure con un set da giardinaggio, o ancora con tre pacchi di biscotti svedesi alla cannella, naturalmente in offerta. In meno di vent’anni l’Ikea ha colonizzato il bel paese, piazzando i suoi negozi-carrarmati in grandi e piccole città, come nel Risiko. Gli annunci di ‘prossime aperture’ sono sempre più spesso sulle pagine dei giornali. Fanno anche discutere, vista la qualità non eccezionale dei prodotti peraltro venduti a prezzi concorrenziali, qualcuno organizza gruppi critici su facebook. Ma il just in time – prendi e porti a casa – funziona, perché i negozi Ikea sono spesso e volentieri molto affollati.
Ogni medaglia ha però due facce. I lavoratori che fanno andare avanti i grandi magazzini della multinazionale svedese - dal lunedì mattina alla domenica sera, sette giorni su sette - sono davvero arrabbiati. Motivo: Ikea vuol dire addio al contratto integrativo. Quasi inutile spiegare che per i dipendenti significherebbe rinunciare a una parte importante dello stipendio, legata alle maggiorazioni salariali per domeniche, festivi e ai premi di produzione. Stefano Morgantini è un delegato della Filcams Cgil, lavora in Ikea dal 1993. Un veterano insomma, assunto quando l’azienda muoveva i suoi primi passi in Italia. In viale Svezia, a Collegno nel torinese, gli addetti sono più di quattrocento. “Io sono vicino alla pensione - racconta Morgantini - ma faccio ancora parte del direttivo, resterò alle dipendenze di Ikea fino ad agosto, voglio portare in fondo la battaglia sul contratto”. Se i manager della multinazionale non vedono l’ora che Morgantini attacchi le metaforiche scarpette al chiodo, il diretto interessato è di parere opposto. Sembra uno di quei quadri operai usciti dalla penna di Lina Wertmueller. “La disdetta del contratto, stipulato 25 anni fa, è arrivata a fine maggio”, spiega Morgantini. Un provvedimento che colpisce tutti i dipendenti, e affonda in particolare quelli che hanno un part-time a 20, 24 o 28 ore. “Sono più della metà dei miei colleghi, persone che senza premi e domeniche guadagnerebbero circa 550 euro al mese, solo grazie alle integrazioni arrivano a 750. Dopo l’annuncio dell’azienda sono disperati, stiamo parlando di giovani, genitori separati, famiglie monoreddito...”.
Il contratto integrativo è scaduto lo scorso anno, in questi mesi sarebbero dovute iniziare le trattative per il rinnovo. “Ma l’azienda non sente ragioni e tira dritto per la sua strada - prosegue Morgantini - non è possibile sedersi attorno a un tavolo con questa spada di Damocle sulla testa”. I sindacati hanno proclamato lo stato di agitazione in tutta Italia, per chiedere a Ikea di ritirare la disdetta. A inizio giugno i combattivi lavoratori di Collegno hanno incrociato le braccia per “uno sciopero riuscito, con assemblee partecipatissime”. La protesta ha attraversato l’intero paese. Nulla si è mosso. Così, per la prima volta nella storia di Ikea, si è arrivati alla proclamazione di una giornata nazionale di sciopero, sabato 11 luglio. Una decisione arrivata dopo una serie di incontri, durante i quali la multinazionale svedese non si è mossa di un millimetro, continuando a riproporre tagli lineari al salario dei lavoratori.
Chi ha il vecchio contratto per lavorare la domenica riceve il 130% in più della paga giornaliera, “ma sono solo il 10% dei dipendenti. Per tutti gli altri il lavoro nel dì di festa vale un 30% in più”. Non basta, Ikea vorrebbe rendere variabile il premio aziendale che i lavoratori ricevono a fine anno e cambiare i criteri per il premio di partecipazione. “Sono misure che renderebbero il lavoro più precario - chiarisce Morgantini - Con un premio fisso tutti, part-time e full-time, sanno di poter contare su una settantina di euro in più al mese, da impiegare per pagare assicurazione, bollo dell’auto, rate della tv... In mancanza di certezze diventa impossibile fare investimenti”. Senza contare che questa decisione unilaterale dell’azienda spazza via gli accordi interni ai singoli punti vendita, faticosamente ottenuti negli anni. “Piccoli importanti traguardi come la pausa di quindici e non di dieci minuti, otto festività pagate al 130%”.
Quando si parla di Ikea si parla di un gigante con più di seimila addetti. Stracciare gli accordi significherebbe peggiorare le condizioni di vita e anche di lavoro di migliaia di persone. “Eppure - precisa Morgantini - non ci siam certo comportati da integralisti, abbiamo trattato, siamo stati responsabili. Nel 2013 abbiamo gestito con l’azienda le fasi per giungere agli accordi del luglio 2014”.
Sulla carta Ikea chiede un rinnovo dell’integrativo equo e sostenibile. “Basta mettersi d’accordo sul significato di equo e sostenibile - risponde Morgantini - io un’idea l’avrei: un dirigente percepisce uno stipendio di 5mila euro al mese, un lavoratore part-time di settecento. Portiamo il lavoratore a 1200 e il dirigente a 4000. Ci sarebbe un risparmio netto di 500euro. Noi le nostre proposte le abbiamo fatte, il 18 dicembre scorso, l’azienda non le ha neppure prese in considerazione”. Impossibile dargli torto. I numeri sono quelli. Anche l’andamento del settore sembra favorire la multinazionale svedese, visto che un diretto concorrente come Mercatoneuno è in forte crisi. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. A Collegno Ikea ha dimenticato l’importanza degli accordi integrativi.


Print   Email