Democrazia e rappresentanza, una costruzione continua - di Federico Antonelli

Dire che la CGIL è un’organizzazione democratica significa dire una ovvietà. La nostra organizzazione usa la parola democrazia in ogni momento della propria vita. Nello statuto, nei documenti congressuali, negli studi sulle pratiche contrattuali e organizzative. In ogni fibra vitale della nostra organizzazione la parola democrazia è presente e dibattuta. Ma una  delle regole della comunicazione insegna che a volte ripetere all’infinito un concetto, una parola, finisce per svuotarlo di valore reale. Si trasferisce la parola nel campo dei miti, dei principi riconosciuti e non più messi realmente in discussione e effettivamente praticati. Si finisce, insomma, per perderne il senso reale e pensare che poiché se ne parla sempre non è altrettanto necessario rivendicarla.
La democrazia è poi soggetto delicato, bello come un fiore ma che può appassire facilmente. Perché la sua coniugazione può essere pratica reale o semplice enunciazione burocratica. Perché la sua definizione non è una soltanto e ogni epoca, luogo o organizzazione ne ha offerto la propria idea ed elaborazione.
Proprio per la complessità del tema è necessario iniziare da noi stessi, da ciò che dice il nostro statuto.

Nello statuto della CGIL la democrazia sindacale non è frutto di una semplice determinazione ideale ma, come è giusto che sia, da un insieme di principi e indicazioni di metodo e obiettivo politico.

Potremmo riassumere tutto in alcune parole d’ordine:

  • massima partecipazione degli iscritti, personale o tramite delegati, alle deliberazione del proprio sindacato di categoria, e delle istanze confederali
  • regole per la formazione delle decisioni…..condivise e unitarie per la definizione e approvazione delle piattaforme rivendicative
  • periodicità delle riunioni dei vari organismi e delle assemblee primarie delle iscritte e degli iscritti
  • tutela del dissenso e delle minoranze, pari dignità delle opinioni
  • democrazia della solidarietà e democrazia degli interessi per la visione confederale propria di un sindacato generale
  • parità di genere, difesa dei pluralismi
  • regole per la definizione della politica dei quadri. Rinnovamento  costante dei gruppi dirigenti. Formazione dedicata all’inserimento di giovani e immigrati negli organismi
  • regole per la gestione non unitaria del governo dell’organizzazione, controllo della maggioranza e tutela delle minoranze
  • la presenza dei delegati nelle strutture statutarie
  • il congresso come luogo decisionale in cui determinare le linee politiche e gli incarichi elettivi

Appare chiaro che la costruzione dell’idea di democrazia è quindi il risultato di un lavoro complesso. Un’elaborazione che costruisce un sistema che eviti il rischio che semplici enunciati siano elusi e la struttura democratica dell’organizzazione venga meno.

Ma una domanda da questa prima semplice osservazione emerge: è sufficiente questo sistema per assicurare l’effettiva pratica della democrazia? In cosa si concretizza nella nostra organizzazione e nella pratica sindacale?

L’esperienza ci racconta che l’idea di democrazia vive nella capacità delle strutture di rinnovare se stesse. Non è un caso quindi che nello statuto si parli di rinnovamento come uno degli elementi centrali da cui partire. Quando un quadro è disponibile a mettere in discussione se stesso ed un giovane sa che il proprio impegno potrà contribuire alla crescita della CGIL, allora il primo accetterà il dibattito e il secondo lo stimolerà esprimendo le proprie opinioni.

L’esperienza ci insegna anche che la democrazia diventa pratica e non mero esercizio dialettico quando le posizioni sono chiare, leali e trasparenti, nella dialettica che, in ogni istanza congressuale e organizzativa, può e deve essere esercitata. Le aree programmatiche sono uno strumento relativamente recente ma che ha permesso di superare l’antico legame strutturale con il partito avviando un percorso di discussione basato su idee e programmi e non rapporti interpersonali avulsi dalla politica.
Negli anni si è anche parlato di sensibilità, termine a cui non si è mai data definizione precisa.
A volte ciò ha contribuito alla confusione delle posizioni, giustificando, con il concetto di “sensibilità” sfumature non dialettiche ma di mero posizionamento organizzativo mai esplicitato ufficialmente.
La scelta della CGIL è comunque quella della chiarezza di posizione dei propri dirigenti e militanti che si possono riconoscere ed organizzare in aree programmatiche . Una delle essenze stesse della democrazia, la trasparenza di opinioni e di posizionamento delle persone che rimane fondamento della nostra organizzazione e su cui dovremo lavorare con impegno e costanza perché resti sempre tale.

L’esperienza ci insegna anche che la democrazia si esercita e si rafforza quando la struttura sindacale coordina e non comanda. A volte nel rapporto tra delegati, RSA o RSU, e struttura si crea un rapporto improprio in cui la determinazione delle decisioni contrattuali  e delle scelte politiche non è frutto della reciproca contaminazione di idee. Spesso i funzionari parlando delle rappresentanze sindacali usano l’espressione “i miei delegati”, con atteggiamento paternalista e possessivo inconciliabile con il ruolo del delegato, libero e protagonista. Questo atteggiamento squilibra ancor di più ciò che è già naturalmente squilibrato. Un delegato non sempre ha la possibilità di maturare una visione ampia dei problemi. Il funzionario o segretario ha vita facile se decide di rafforzare questo squilibrio. Per questo è importante, per consolidare l’idea di democrazia interna alla nostra organizzazione, determinare le risorse per la formazione,  creando percorsi di crescita e maturazione dei delegati che sono coloro che rendono vivo e forte il sindacato. Perché il principio primario della democrazia sindacale si determina, al fine di queste veloci riflessioni sulla democrazia, nell’elemento rappresentanza. La rappresentanza che è rappresentanza di interessi e di valori. Gli interessi del mondo del lavoro, i valori della classe lavoratrice (antifascismo, la pace, la solidarietà, l’internazionalismo). La connessione di democrazia e rappresentanza produce la contrattazione; che sua volta produce partecipazione in un percorso virtuoso che è compito del mondo sindacale reiterare.

Quando fu scritto lo statuto dei lavoratori si disse che la costituzione entrava in fabbrica. Uno slogan felice che vide anche l’evoluzione decisiva delle forme della rappresentanza. Infatti dopo le esperienze delle commissioni interne e dei consigli di azienda l’invenzione della RSA diede la spinta finale alla presenza del sindacato nelle fabbriche e negli uffici, completando il percorso di consolidamento del rapporto tra lavoratori e organizzazione sindacale.  In quella legge erano presenti alcune delle pietre angolari della democrazia in azienda e del ruolo della rappresentanza sindacale:

  • comunicazione
  • informazione
  • contrattazione

Su questi tre elementi si è giocata quindi una partita che si è evoluta nel corso di diversi accordi interconfederali che hanno progressivamente tentato di dare corpo a una forma compiuta di rappresentanza. RSU nell’accordo del luglio 93. Sistemi di verifica della rappresentatività nel corso di successivi accordi fino agli ultimi di questi anni che oggi coprono, per via negoziale, quasi tutte le categorie del mondo del lavoro. Numero certificato degli iscritti, accordi sottoscritti, delegati eletti nelle elezioni della rappresentanza sindacale unitaria. La forma più evoluta di questo percorso è probabilmente la legge che riguarda il pubblico impiego, che purtroppo ad oggi, non è stato possibile riprodurre nel sistema delle imprese private. Opposizioni politiche in parlamento e opposizioni sociali (anche sindacali) hanno impedito tale percorso.

Anche una diversa idea di partecipazione è oggi al centro dell’impossibilità di avere una legge sulla rappresentanza da noi auspicata.  L’idea di sindacato di classe, che contratta e che nel caso di necessità è pronto a organizzare il conflitto non piace a chi desidera implementare la visione istituzionale del sindacato. Si punta a creare un modello partecipativo , in cui giocare un ruolo diverso, più inserito, apparentemente, la dove vengono assunte le decisioni dell’impresa, e meno nel contesto lavorativo. Una scelta che all’estero, in talune situazioni,  ha funzionato, ma in relazione a un modello economico e sociale che poco ha a che fare con il modello e la storia italiana. Basta pensare a quanti accordi sulla partecipazione sono stati sottoscritti (anche a fronte di risorse economiche messe a disposizione all’interno della norma). Anche a me è capitato di discutere di tale possibilità su ottima intuizione di un consulente aziendale, ma prontamente la proprietà ha rinnegato tale opportunità rifiutando la possibilità di creare un percorso partecipativo all’interno della propria azienda. Questa idea di partecipazione e democrazia non ha possibilità di sviluppo nel nostro paese; le dimensioni delle nostre imprese, la visione imprenditoriale di molte aziende (ancorata al territorio e a una concezione padronale dell’attività imprenditoriale), oltre a un sistema di tutela sociale e previdenziale insufficiente e non integrato con una rete di servizi al lavoro avanzato, i fattori limitanti.

Da noi prevarrà sempre, e io dico fortunatamente, un sindacato generale, di classe, quando serve conflittuale, che contratta e non cogestisce. L’idea di sindacato che deve sapere bene chi, e quali interessi, rappresenta. Un sindacato che se vuole rafforzare il proprio ruolo di rappresentanza, e la visione democratica della stessa, deve rilanciare una visione di classe in cui non si può accettare una redistribuzione sempre meno equa delle risorse economiche. Una visione in cui, se si possono accettare logiche contrattuali che scambino in un quadro di compatibilità economiche, non può perdere la prospettiva di un cambiamento sociale.
Troppo spesso si scambia la modernità con superamento delle ideologie e degli schemi economici. Se democrazia e partecipazione, rappresentanza e contrattazione hanno un senso, questo può essere trovato soltanto nella capacità di riconoscere i propri riferimenti, nella capacità di confrontarsi con la realtà quotidiana delle condizioni materiali e morali del mondo del lavoro e delle lavoratrici e lavoratori.

Gli accordi sottoscritti di cui parlavo prima sono innumerevoli e riguardano tutte le categorie. In questo vortice di attività si è tentato di dare ordine a un ambito che oggi appare ancora confuso e deregolamentato. Se pensiamo al proliferare di accordi che noi definiamo, in modo gergale, pirata è perché tutti i tentativi di creare un moderno sistema di relazioni sindacali, democratico e rappresentativo, in grado di contrattare anche in virtù di un riconoscimento certo e non discutibile del ruolo delle confederazioni, non ha ottenuto il risultato sperato. Quindi il percorso iniziato con lo statuto dei lavoratori del 1970 e con la Costituzione repubblicana del 47 non può dirsi compiuto. Noi esprimiamo la necessità di arrivare al risultato, di avere una legge sulla rappresentanza in cui riconoscere il ruolo delle rappresentanze sindacali, il ruolo delle organizzazioni sindacali e la misurazione della loro rappresentatività, le regole di ingaggio democratico alla contrattazione (consultazione dei lavoratori e validazione degli accordi), validità erga omnes dei contratti nazionali. Operazione che potrebbe risultare più  efficace della sola norma sul salario minimo a tutela della giusta retribuzione del lavoro. Se poi la validità dei contratti erga omnes fosse associata alla norma sul salario minimo allora forse si, si potrebbe dire che un intervento a favore delle fasce deboli del mondo del lavoro è stato compiuto.

In questi passaggi si evidenzia il collegamento tra democrazia, rappresentanza, partecipazione e contrattazione. Tutti elementi concatenati sui quali noi, come sinistra sindacale abbiamo il dovere elaborare una nostra idea compiuta. In passato abbiamo discusso sulle regole della certificazione del voto dei lavoratori. Se da un lato l’idea del referendum, come strumento principe della democrazia sindacale, appariva come un semplice argomento distintivo in un dibattito altrimenti bloccato, poneva a tutta l’organizzazione un tema reale. La realizzazione effettiva delle democrazia nei luoghi di lavoro. Certificare e obbligare CISL e UIL alla pratica della democrazia di mandato nell’esercizio della contrattazione è una sfida ancora aperta. La CISL considera l’iscrizione come l’atto con il quale il lavoratore da mandato di contrattare senza necessità di ulteriori passaggi. In questa visione del ruolo sindacale si confonde un atto politico che per noi è solo di adesione e sostegno all’organizzazione  sindacale, con un mandato assoluto e predeterminato. Io do adesione alla CGIL, non le do mandato assoluto. Si sostiene l’iniziativa sindacale e si decide di esserne parte attiva, ma questo non significa che io non voglia conoscere, discutere e approvare le linee contrattuali, le scelte che si operano nella contrattazione. Ogni lavoratore deve essere protagonista delle scelte fatte e ogni lavoratore a cui si applica un contratto ha diritto parteciparne alla definizione esprimendo la propria opinione. Pensiamo alle esperienze di accordi integrativi che coinvolgono molti dei delegati qua presenti. Perché dare come elemento assodato l’accettazione di un accordo solo per il fatto che migliora la retribuzione delle persone. Ci sono molte strade per raggiungere un obiettivo, e ci sono obiettivi e condizioni che solo chi lavora in azienda può conoscere fino in fondo. Scambi possibili e accettabili che le persone conoscono e riconoscono solo se, nella loro esperienza, hanno potuto discutere e maturare.
E’ quindi indispensabile rivendicare sempre un metodo che imponga il confronto e la responsabilità verso le persone rappresentate.  In questo metodo, informare in modo puntuale e trasparente è il primo passo. Comunicare consapevolmente, cioè sapendo che la comunicazione è scambio a due vie di informazioni e pensieri e non un monologo sordo. Contrattare in maniera efficace, sarà allora anche il risultato della coerenza e correttezza dell’informazione e della comunicazione.

In questa evoluzione del mio pensiero, quindi la democrazia è vitale soltanto se è il risultato di uno sforzo immane di comprensione e ascolto. Se si lavora in questa direzione si evita il rischio della delega in bianco, di quella pessima abitudine che forse produce iscritti, militanti e sostenitori, ma non partecipazione e democrazia. Quanti di noi hanno vissuto esperienze di falsa partecipazione e democrazia. La forma e la ritualità delle riunioni, dei coordinamenti, di direttivi o assemblee generali in cui gli interventi sono limitati e spesso demandati esclusivamente a funzionari o segretari. Quante volte è successo che si mandassero delegati a intervenire con fogli scritti dal segretario di riferimento. E’ vera partecipazione quella? E’ un vero dibattito. E’ vera ricerca della rappresentanza? No, per me quella è forma, manierismo democratico. Ma qua il problema non sta nella scelta dell’organizzazione, qua sta anche nell’atteggiamento dei delegati. Siete voi i primi che dovete chiedere di parlare, di essere ascoltatii, perché la partecipazione deve essere rivendicata, ricercata e pretesa. Il giusto mix di esperienza professionale e vita di azienda deve essere stimolato da voi, perché la struttura burocratica rischia di appassirsi su se stessa se non si sente messa in discussione. Certo in maniera corretta, presumendo la lealtà e la buona fede ma discutendo le scelte politiche messe in campo. Pretendendo di dire la propria sugli accordi sottoscritti, esprimendo il proprio voto favorevole o il proprio dissenso. Ma se ve ne scordate voi questa pratica sarà dimenticata da tutti. Lo dicevo prima. Molte delle idee sulla rappresentanza e le modalità per esercitare la democrazia nei luoghi di lavoro vivono negli accordi interconfederali sottoscritti. Ma la democrazia e la forma della rappresentanza sono concetti relativi, che si modificano con il tempo e con le prassi. Se dicessimo che la nostra organizzazione non è democratica faremmo due errori. Il primo la nostra eventuale permanenza: io non resterò mai dove non mi sento libero. Secondo errore diremmo una bugia. Nella nostra organizzazione si pratica e si cerca di stimolare la democrazia. Ma la nostra organizzazione è grande, fatta di persone con esperienze diverse. Sto imparando che esistono molte Italia. E le differenze di contesto e di storia provocano modalità diverse di pratica sindacale.  Siamo sicuri che ovunque siano in linea con i nostri dettami? Siamo sicuri che tutte siano perfettamente allineate con ciò che il nostro statuto e la nostra storia politica impongono? Non lo so. So soltanto che siete voi delegati che potete porre un argine reale a qualunque deriva errata dovesse avviarsi.

Spesso con Andrea ci confrontiamo su diversi temi: uno è la base sulla quale ricostruire un’area di sinistra all’interno della nostra CGIL. Io e lui abbiamo una lettura diversa della realtà. Lui mi prende in giro e mi definisce un liberale di sinistra milanese. Forse ha ragione. Non so io mi sento soltanto molto di sinistra. Ma di una cosa sono certo: entrambi sappiamo che dobbiamo partire da voi, dai delegati e ce lo diciamo continuamente. Noi dobbiamo raccontare ai delegati la nostra idea di CGIL  e portarli a noi. Non dovremmo mai pensare di costruire una area fatta di apparato e burocrazia. Dobbiamo concepire la nostra area come il contenitore che aiuta la CGIL  tutta, a mantenere il proprio orientamento coerente con le proprie azioni, e quindi l’area nella quale tutti i delegati possano sentirsi liberi e partecipi, liberi e consapevoli, liberi ma organizzati e capaci di spingere la politica sindacale alla coerenza dei comportamenti e delle scelte e la contrattazione efficace e rappresentativa degli interessi che la muove.


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