Recessione Italia e possibili vie di uscita - di Gian Marco Martignoni

Piuttosto che sorprendersi per l’ennesimo dato trimestrale negativo del Pil, che conferma la tendenza recessiva che da tempo ha investito il nostro paese, con tanto di sonora bocciatura della politica degli annunci governativa, varrebbe invece la pena riprendere gli studi e le indagini che a suo tempo avevano affrontato l’involuzione della nostra economia; nel mentre chi aveva ruoli di responsabilità istituzionale negava addirittura il concetto di crisi, poiché - veniva detto -“ i tavoli dei ristoranti sono sempre pieni”.

Infatti, già agli inizi degli anni duemila, alcuni insigni studiosi, a partire da Luciano Gallino con il fondamentale pampleth La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi) e successivamente Gianni Toniolo e Vincenzo Visco, curatori del volume collettaneo Il declino economico dell’Italia (Bruno Mondadori), avevano fornito a questo riguardo dei contributi di indubbio spessore.
Purtroppo, anche grazie alla complicità dei media, quando dal 2008 è esplosa la crisi, si è preferito indicare nell’euro o nella Germania della Merkel i responsabili del disastro annunciato, rimuovendo le cause storiche e strutturali che hanno determinato il declino economico, sociale e culturale del nostro paese nell’arco di qualche decennio.
Se si considera che l’Italia è in stagnazione, per via del generalizzato rallentamento dei tassi di crescita dal 1995, e che la caduta del Pil nell’arco temporale 2008-2013 è stata pari al 9%, la situazione è più che grave, paragonabile, come segnala Federico Fubini nel recente testo Recessione Italia. Come usciamo dalla crisi più lunga della storia, Editori Laterza, solo al periodo 1917-1921.
Quello di Fubini è un contributo decisamente interessante, poiché nel saggio introduttivo l’editorialista di Repubblica risale alle cause endogene di questo declino, mentre altre cause vengono ben dettagliate da economisti e studiosi del calibro di Marcello De Cecco, Giuseppe De Rita, Mario Pianta, Alessandro Rosina, ecc.
D’altronde, ultimi in Europa per quanto concerne la ricerca con l’1,25 investito in percentuale del Pil, l’Italia ha patito storicamente la mancanza di autorità di controllo indipendenti e di una politica industriale in grado di qualificare la struttura produttiva del paese, mentre, come sostiene acutamente Marcello De Cecco, “collettivamente ci siamo cullati su un’illusione pericolosa, ossia credere che le nostre piccole e medie imprese fossero una forza”.
Parallelamente a questa struttura produttiva debole, concentrata nei settori tradizionali dell’economia, si è però determinata, come rileva Mario Pianta, una estensione abnorme delle attività finanziarie, finalizzate alla ricerca di cospicui guadagni speculativi, che conseguentemente ha comportato una vistosa caduta sia degli investimenti fissi, pari al 22% del valore aggiunto, che in macchinari.
Come sorprendersi allora se il reddito per abitante è sceso dal 1999 addirittura dello 0,5%, e se tra il 2001 e il 2010 l’Italia ha perso 1 milione e mezzo di occupati nella fascia tra 15 e 35 anni, generando una situazione drammatica, a cui non si intravede come porre rimedio in questo contesto economico.
Certamente la disoccupazione dilaga in tutta Europa, per via delle fallimentari politiche neoliberiste dell’austerità e della prolungata crisi da sovrapproduzione capitalistica, ma lucidamente Fubini non elude il fatto che “la crisi economica italiana è, in primo luogo, una crisi culturale”, nonché, riprendendo il pensiero di De Rita, il prodotto dell’eclissi della borghesia italiana e di elites dominanti tutt’altro che illuminate.
La facile e progressiva acquisizione da parte di capitali stranieri di aziende e marchi rilevanti del nostro tessuto produttivo è l’emblematica testimonianza di questa apparentemente inarrestabile tendenza recessiva, al di là delle comparsate e dei proclami di Matteo Renzi, febbrilmente impegnato in un’autoritaria operazione di ingegneria istituzionale e nel forsennato attacco ai diritti e ai poteri del mondo del lavoro e delle loro organizzazioni, attraverso l’imbroglio mediaticamente orchestrato con le cosiddette tutele crescenti del jobs act.


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