“La formula che usano è ‘forma parlamentare di governo del primo ministro’: significa che il parlamento diventerebbe l’organo esecutivo delle decisioni del primo ministro, pronto a tradurre in legge le sue direttive”
Intervistato dal periodico Left, il decano dei costituzionalisti italiani Gianni Ferrara ha esaminato il lavoro dei “saggi” sulle possibili revisioni costituzionali, criticando la relazione finale. A suo avviso, anche se viene mantenuta la forma parlamentare di governo, sono affidati al presidente del consiglio poteri eccessivi, tali da delineare un parlamento che diventerebbe uno “strumento della legislazione”, a disposizione del primo ministro.
Professor Ferrara, nell’intervista lei si è detto preoccupato e in dissenso con l’operato della commissione, criticando i ‘poteri abnormi’ di cui sarebbe investito il presidente del Consiglio. Ha anche osservato che quella relazione poteva essere tranquillamente redatta dagli uffici giuridici di Camera e Senato...
Avrebbero fatto lo stesso lavoro in meno tempo, con minori spese e con maggior precisione: Nel documento non c’è nulla di più di quanto già si sapesse sulle possibili revisioni costituzionali. In particolare, penso che sia sostanzialmente una ‘furbata’ l’ipotesi di lavoro sulla forma di governo. Si tende a fare un semipresidenzialismo senza dirlo, camuffandolo da forma parlamentare. La formula che usano è ‘forma parlamentare di governo del primo ministro’: tradotto significa che il parlamento diventerebbe l’organo esecutivo delle decisioni del primo ministro, pronto a tradurre in legge le sue direttive.
Per questo lei parla di un ‘potere abnorme’ che sarebbe affidato al premier?
La verità è che, per conciliare le tendenze dei ‘parlamentaristi’ con quelle dei ‘presidenzialisti’, si arriva a ipotizzare un premier che diventa organo di direzione del parlamento. Una formula che non sta né in cielo né in terra.
Nemmeno in altri sistemi politici?
In Inghilterra il premier ha un grande potere. Ma questo gli deriva dal fatto di essere il leader del partito che vince le elezioni, e che quindi ha la maggioranza dei parlamentari. A riprova, se nel partito di maggioranza si decide di sostituire il leader, cambia automaticamente anche il premier. Non è una ipotesi di scuola, un fatto del genere è già accaduto, più di una volta. Del resto fin dal ‘700, dopo la rivoluzione di Cromwell, i tories e i whigs, progenitori dei laburisti, decisero assieme che non sarebbe stata più tollerata la personalizzazione del potere. Né da parte del monarca, né tanto meno da parte di altri. Anche il sistema politico tedesco è di forma parlamentare. Angela Merkel è cancelliera perché è la leader del Cdu-Csu, in quanto tale viene eletta dal Bundestag dove il suo partito è maggioranza, dopo aver ricevuto dal presidente della Repubblica l’incarico di formare il governo.
Poi ci sono anche i sistemi presidenziali, come gli Stati Uniti e la Francia.
Come vediamo anche in questi giorni, negli Stati Uniti i poteri del presidente, che pure è eletto dal popolo, trovano comunque dei limiti invalicabili nel potere delle assemblee legislative. Non controllando i due rami del Congresso, Obama deve venire a patti. In Francia invece i poteri del presidente sono assai più ampi, e va onestamente detto che anche questo sistema funziona. Ma questo deriva dal fatto che la Francia ha fatto una rivoluzione che ha portato alla nascita degli Stati costituzionali, basati sulla divisione dei poteri. Nell’anima e nel costume dei francesi resta sempre fortissima la concezione del bilanciamento dei poteri, anche in un sistema presidenziale.
Una consapevolezza che purtroppo non sembra ancora caratterizzare gli italiani, giusto?
Deve essere sempre ricordata la lezione di Solone. Quando gli chiesero quale fosse la forma migliore di governo fra monarchia, aristocrazia e democrazia, lui rispose chiedendo: ‘In quale città?’. Tornando all’odierno caso italiano, i saggi hanno voluto conciliare la visione di una gran parte dei costituzionalisti fedeli alla forma parlamentare, con una parte più piccola che propugna, da destra, il semipresidenzialismo. Di qui ne deriva il pasticcio che abbiamo di fronte. Dove per giunta si conferma l’obbrobrio dell’attuale legge elettorale di indicare nella scheda il capo della coalizione di governo. Con il risultato di avere un presidente del consiglio che risulta eletto direttamente dal corpo elettorale, e che quindi appare più forte della sua maggioranza. Tanto da insidiare perfino i poteri del presidente della Repubblica. Un vero pastrocchio. Per fortuna appare molto improbabile che in parlamento si raggiunga la maggioranza dei due terzi necessaria per approvare le modifiche costituzionali. Al momento credo non arriverebbero nemmeno a quella assoluta del 50% più uno....
Pericolo sventato dunque?
Aspettiamo e vediamo. Ma mi faccia fare un’ultima considerazione. Dal lavoro dei saggi emerge anche una proposta di riforma delle legge elettorale, basata su un vecchio lavoro di Roberto D’Alimonte. Si pensa a un sistema proporzionale, con un premio di maggioranza di circa il 10% per la lista più votata che supera il 40%. Se nessuno raggiunge quella quota, allora si va al ballottaggio fra le due prime liste. A questo punto mi chiedo: e gli altri? In Italia il bipartitismo non c’è, non c’è mai stato. Anche alle ultime elezioni le formazioni politiche prevalenti sono state tre. Con questa legge elettorale invece chi arriva terzo quasi scomparirebbe. Ci sarebbe l’esclusione di una forza anche di circa il 30%. La verità è che in tutti i politologi, tranne Giovanni Sartori, è dominante il problema del governo e non quello della rappresentatività. Fino a torcere a 360 gradi il principio della rappresentanza, arrecando un vulnus, una ferita, alla democrazia. Del resto fu Vittorio Emanuele Orlando, maestro dei costituzionalisti italiani, a coniare l’espressione ‘cupidigia di servilismo’. E si riferiva, appunto, ai costituzionalisti.