Il riposo festivo: una conquista rimessa in discussione dopo oltre un secolo

Nel 1904 la Camera dei Deputati bocciò il disegno di legge per l’introduzione del riposo festivo. Questo non aveva scoraggiato il movimento dei lavoratori. Nel corso dello stesso anno venne convocato un Congresso nazionale pro riposo festivo e furono poste in cantiere numerose altre iniziative: venne creato un Comitato centrale nazionale e istituiti Comitati regionali per sostenere, in modo continuativo, la richiesta della legge sul riposo festivo. L’“Unione” dedica, quasi su ogni numero, articoli sull’importanza della richiesta e pubblicò un numero unico (novembre-dicembre 1905), dedicato al riposo festivo, diffuso in tutta Italia in migliaia di copie.
L’iter parlamentare della legge fu accompagnato da numerose iniziative, cadenzate con i lavori parlamentari. Così, sotto la spinta di un’opinione pubblica più attenta, la legge sul riposo festivo venne approvata dalla Camera prima e dal Senato poi (luglio 1907) ed entrò in vigore nel febbraio 1908.
La legge approvata, di proposta ministeriale, rappresentò un arretramento rispetto alla proposta Cabrini (prevedette un riposo di 24 e non di 36 ore consecutive e non impose la chiusura degli esercizi commerciali, ma soltanto il riposo obbligatorio per i dipendenti). Questo esentò tutte le attività di tipo familiare e potè rappresentare un escamotage per aggirare la legge. Tali limiti fecero dire al redattore de “L’Unione” che la legge rappresentò solo un “acconto” della legislazione sociale che venne richiesta.
Con l’approvazione della normativa non terminò la mobilitazione della categoria, bensì iniziarono forme di pressione, sugli esercizi commerciali, per far “applicare anticipatamente” la legge sulla chiusura domenicale (anche con picchetti e con  squadre organizzate di lavoratori che girarono per le città). A Milano, tra l’altro, si tenne una manifestazione, con corteo e comizio finale, alla quale parteciparono circa 12.000 persone. Furono necessarie ancora molta costanza e determinazione per evitare che i commercianti, con accorgimenti formali, non aggirassero e svuotassero la legge; man mano, la chiusura venne fatta applicare sia nelle città che nei piccoli centri fino a diventare una norma accettata e un simbolo di civiltà.
Norma di civiltà che dopo 105 anni è stata rimessa in discussione dall’odierna restaurazione neoliberista e conservatrice sostenuta da leggi “sciagurate” che danno alle aziende la gestione unilaterale delle aperture domenicali e festive. L’aspetto assurdo è la sottrazione di questi aspetti  alla contrattazione sindacale nell’ottica di relegare il lavoratore a mero “passivo strumento della produzione economica” con diritti sempre minori. Certo la situazione attuale è difficile, la politica del governo e delle forze politiche che lo sorreggono non consentono molte illusioni su un veloce superamento del problema, ma la mobilitazione dei lavoratori, anche attingendo a forme di lotta  innovative o già collaudate, avranno ragione di queste politiche regressive, poste in essere per  ampliare l’arbitrio del padronato.
C.G.

Per approfondimenti vedi:
“L’origine dell’attività sindacale nel settore
dei servizi (1880-1925)”,
di A. Famiglietti. Roma, Ediesse, 2005.


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